TINO BEDIN

Lettera dal Senato. 77 /13 novembre 2003
Dopo l'attacco al contigente dei carabinieri

A Nassiriya con il coraggio dei pacificatori
Per rendere onore alle ragioni degli italiani caduti

di Tino Bedin

Cari amici, giovedì 13 novembre, ore 8: sono davanti ad uno degli ingressi del Senato. Arriva il picchetto di guardia: tre giovani soldati, penso tre ragazzi di leva; uno resta davanti alla porta, gli altri due marciano verso l'ingresso successivo. Succede ogni giorno; ho visto centinaia di volte la guardia montare alle 8, tante volte da non doverci più fare caso. Stamattina ci faccio caso: probabilmente perché mi aspetto qualcosa di diverso.
Ho appena visto i tg delle 7: aggiornavano sulle strage di italiani e di iracheni a Nassiriya, Iraq. Avevano aggiunto altre vittime al bilancio della sera. Forse anche le acque dell'Eufrate - avevano riferito - s'erano portate via qualche persona. Non erano immagini e notizie normali: erano le prime immagini di "guerra italiana" che vedevo in vita mia. Per questo mi aspetto di vedere qualcosa di inconsueto (e di preoccupante) davanti ad uno dei luoghi-simbolo della Repubblica. Un simbolo inconsapevole c'è: i tre giovani di leva del picchetto di guardia al Senato hanno il distintivo della Brigata Sassari, lo stesso dei soldati caduti a Nassiriya.
Il pomeriggio precedente in Senato la parola guerra non era stata pronunciata, ma tutti sapevano che era guerra. Infatti questa parola tragica era stata votata nell'aula del Senato dopo un altro dibattito, che aveva riguardato Nassiriya, i carabinieri e i volontari dell'esercito destinati all'Iraq: alla loro missione il governo aveva chiesto che fosse applicato il Codice penale militare di guerra. Il governo sapeva dunque che mandava i soldati italiani in guerra.

Costernati di aver avuto ragione. Allora il governo non lo disse. Raccontò che i militari italiani andavano a fare la scorta agli aiuti umanitari. Noi dicemmo che quasi tremila persone erano davvero troppe per fare la scorta; dicemmo che la nostra Costituzione (quella che ci aveva fortunatamente impedito di partecipare alla guerra) ci impediva di far parte del dopoguerra.
"Glielo avevamo detto", sussurriamo ora tra noi in Senato: noi, quelli che avevano sostenuto che l'Italia non doveva andare in Iraq. Ce lo ripetiamo tra noi, ma non per rivincita: con costernazione, con rimpianto. Costernati di avere avuto ragione e perciò senza nessuna voglia di rivendicare quella ragione; ammutoliti di fronte ai 19 morti: per rispetto, e non solo.
Quei 19 cittadini italiani morti a Nassiriya, le loro famiglie e i loro commilitoni, ci chiedono di essere "rappresentati" in Parlamento; "usi obbedir tacendo", chiedono ai senatori di parlare a nome loro, usando le loro parole.
Non sono le parole che in Senato usa il presidente del Consiglio. Mi appare meschino nel tentativo di appuntarsi sul petto le medaglie al valore dei militari caduti: "Era il nostro dovere, il dovere del nostro Paese e noi l'abbiamo compiuto", dice fiero di sé, spiegando che "da quando una guerra feroce è stata dichiarata dal fanatismo terrorista all'umanità intera con la strage dell'11 settembre 2001, questo Governo, forte del voto del Parlamento, ha agito perché l'Italia fosse leale con i suoi alleati storici, sicura di sé e del suo ruolo, nel contesto europeo a cui appartiene come Paese fondatore, capace sempre di proporre soluzioni utili ad una coalizione più vasta possibile in favore della democrazia e della libertà".
Ma non è questo che la maggioranza parlamentare aveva votato; aveva votato un'azione umanitaria. Non aveva neppure votato perché i militari italiani fossero in Iraq sotto il comando americano: il Parlamento lo sa mercoledì 12 novembre, quando per la prima volta il ministro della Difesa dice in Senato che l'operazione italiana "Antica Babilonia" è nel quadro più generale dell'operazione statunitense "Iraqui freedom", l'operazione della guerra preventiva.

Restituire ai nostri soldati le ragioni della pace. Sorprende noi senatori questo governo, ma avrà sorpreso di sicuro anche i nostri militari, che parlando dei loro caduti, dei loro feriti raccontano agli italiani di un'azione di pace, di un sostegno alla popolazione, di ospedali, di bambini. Per questo avevano pensato di andare in Iraq le 19 persone cadute a Nassiriya.
Le loro ragioni sono ora buone ragioni per restare lì. Anzi adesso c'è un dovere in più: fare quello che non hanno fatto in tempo a fare i caduti: "fare la pace".
Al momento dell'avvio della missione Antica Babilonia non c'era nessun motivo per la presenza dell'Italia in Iraq. Quella scelta sbagliata ha messo in difficoltà le nostre forze armate perché per la prima volta esse rischiano di essere considerate uno dei due contendenti e non lo strumento di interposizione e di pacificazione fra due contendenti. Questo rischio va evitato e superato: per onorare le vittime di Nassiriya, per dare fiducia e sicurezza ai nostri soldati in Iraq e in tutte le parti del mondo dove il nostro dovere di democrazia solidale richiede e richiederà la loro presenza.
Le "buone ragioni" dei caduti a Nassiriya hanno bisogno di un'azione politica coerente. Il punto di partenza è il ristabilimento della sovranità dell'Iraq sul proprio territorio, sostenuto da una forza multilaterale dell'Onu. Può apparire uno strumento, non la sostanza. Non è così, è sostanza: significa - ad esempio - restituire il petrolio agli iracheni; significa che i soldi del petrolio non servono a pagare le spese americane della guerra ma la pace degli iracheni.
È comunque il passaggio indispensabile verso la rinuncia alla guerra preventiva, verso la scelta della pace come strumento di rapporti internazionali.
L'Italia ha scritto il suo articolo 11 della sua Costituzione con negli occhi e nel cuore le tragedie della guerra. Questo è un altro momento di coraggio della politica: contribuire a scrivere le nuove regole della pace sotto l'urto dei camion-bomba e con negli occhi vite stroncate di militari "pacificatori".
Se essere pacifisti può essere una scelta etica, essere "costruttori di pace" è una scelta politica: l'unica che ci resta. Richiede coraggio, più coraggio della guerra. I militari italiani caduti a Nassiriya questo coraggio l'hanno avuto.

Tino Bedin

Roma, 13 novembre 2003


18 novembre 2003
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