SALUTE

Non c'è più solo il tema
della sostenibilità finanziaria per le Regioni

La salute insostenibile per le famiglie
Si sta riducendo la cura per la prevenzione e il mantenimento,
ma così si accrescono i rischi dell'emergenza e dell'urgenza sanitarie

di Tino Bedin

Sospinta dalla campagna elettorale (e dal programma sulla sanità veneta di Alessandra Moretti) la giunta regionale del Veneto ha finalmente avviato il passaggio dal "medico di famiglia" alle medicine di gruppo integrate. Il progetto di presidi sanitari territoriali, aperti 7 giorni su 7 e 24 ore su 24 è da anni nel piano sociosanitario regionale, ma Zaia non ne aveva finora dato attuazione. Ora a qualche settimana dal voto regionale (e quindi con minime possibilità di veder realizzare davvero qualcosa) ha messo sul piatto 100 milioni di euro in quattro anni destinati ai medici di famiglia.
La notizia non è però questa. La notizia è che questa spesa non piace ai pensionati. Questa settimana le tre organizzazioni sindacali dei pensionati del Veneto (Spi-Cgil, Fnp-Cisl e Uil-Pensionati) hanno pubblicato la loro valutazione in un documento dal titolo ben riassuntivo "La sanità nel Veneto continua ad essere di parte: soldi per pochi, ticket e rette sempre più alte per i cittadini".
Certo piace agli anziani l'idea di avere vicino a casa, senza bisogno di code al pronto soccorso, un presidio continuativo composto da medici, infermieri, assistenti sociali, specialisti, operatori socio-sanitari. Anzi si lamentano che siano stati buttati tre anni prima di decidere e che ora la giunta Zaia - invece di recuperare il tempo perso - rinvii l'entrata in funzione completa dall'1 gennaio 2017 all'1 gennaio 2019.
Oggi però c'è un'altra urgenza, antecedente allo stesso Pronto soccorso: la non sostenibilità da parte delle famiglie dei costi della salute. Dicono i sindacati dei Pensionati: "Questi soldi, che sono soldi di tutti, devono essere spesi bene! Abbiamo segnali sempre più preoccupanti di cali di quantità e qualità di servizi e prestazioni. Di persone che oramai rinunciano alle cure mediche perché non sono più in grado di pagare i ticket, che rinunciano alla casa di riposo perché la retta è diventata insostenibile, assegni di cura bloccati perché le Ulss non hanno più disponibilità economiche".

I risparmi in sanità a carico delle famiglie. Si fa pressante dunque anche in Veneto una condizione finora poco valutata a livello sia regionale sia nazionale: la sostenibilità della propria salute da parte delle famiglie. Decisioni e discussioni da anni continuano ad imporre agli italiani il problema della sostenibilità del Servizio sanitario da parte dello Stato. La pervicacia con cui sia alcuni tecnici sia alcuni politici utilizzano bilanci pubblici, costi di prodotti e servizi, proiezioni demografiche ha finito per diffondere la convinzione che sia ineluttabile la insostenibilità del Servizio sanitario nazionale. Proprio per la proclamata ineluttabilità non c'è stato grande dibattito né pubblico né comunitario sul trasferimento di parte della stesa sanitaria dallo Stato alle famiglie.
È successo infatti, e continua a succedere, che una parte rilevantissima dei "risparmi" della Sanità non derivino da una più economica erogazione dei servizi, ma dall'imposizione di spese a carico delle famiglie. Non si tratta solo di ticket. Le liste d'attesa insopportabili costringono a rivolgersi al privato a pagamento. La riduzione dei tempi ospedalieri riconsegna alle famiglie persone non ancora valide e quindi bisognose di assistenza e riabilitazione, solo sulla carta e non nei fatti assicurate a domicilio: e sono altre spese per le famiglie, sia in denaro sia in riduzione di capacità lavorative. In Veneto la giunta di Zaia ha bloccato da molti anni il valore della quota sanitaria nelle case di riposo: la conseguenza è che parte crescente delle spese sanitarie finisce nella quota alberghiera.
Ora siamo al punto che questo deficit non è più sopportabile dalle famiglie. Ora il deficit nei bilanci familiari produce una minore cura per la prevenzione e per il mantenimento, con la conseguenza di accrescere i rischi dell'emergenza e dell'urgenza sanitarie e quindi del ricorso all'ospedale.

Quasi che la salute non sia più una questione nazionale. La situazione è così grave che è stata ufficialmente sollevata a fine gennaio dalla Commissione Igiene e Sanità del Senato della Repubblica nel rapporto intermedio dell'indagine conoscitiva sulla sostenibilità del Servizio sanitario nazionale. Le prime due conclusioni sono eloquenti:
- il Servizio sanitario nazionale "non è in grado di sopportare ulteriori restrizioni finanziarie, pena un ulteriore peggioramento della risposta ai bisogni di salute dei cittadini" (così i senatori invertono i fattori: prima la salute, poi il bilancio);
- la spesa delle privata delle famiglie è diventata rilevante per alcuni settori (ad esempio l'assistenza duratura) tanto che la sua sostenibilità deve essere attentamente valutata per molte famiglie colpite dalla crisi economica.
Il Rapporto intermedio ha ovviamente anche altre conclusioni. Queste due interessano perché possono spostare il confronto sul Servizio sanitario nazionale e la sua conseguente progettazione su un terreno diverso da quello "ineluttabile" dei tagli. Per meglio dire, possono far ripartire il confronto sulla salute.
È successo infatti un paradosso: la regionalizzare del Servizio sanitario e dell'assistenza ha allontanato l'attenzione da questo settore, se non per l'aspetto finanziario. La dimensione regionale, invece che avvicinarla ai cittadini, ha tolto "importanza" alla materia, quasi che la salute non sia più una questione nazionale, ma affare delle singole regioni.
Questa riduzione del "valore di cittadinanza" della salute sta anche favorendo l'idea che sia "normale" la compartecipazione alla spesa da parte delle famiglie. In un convegno di fine gennaio a San Bonifacio (Verona) è stata presentata un'indagine sui bisogni sociosanitari della popolazione delle province di Verona e Vicenza, dalla quale - tra l'altro - è emerso che il 91 per cento di un campione di dirigenti Ulss, sindaci e sindacati "ritiene che gli individui e le famiglie debbano compartecipare alla spesa per i servizi".
Può darsi che questo 91 per cento abbia ragione. Sarebbe però giusto discuterne, senza dare per scontata questa verità.

29 marzo 2015


25 aprile 2015
sal-037
scrivi al senatore
Tino Bedin