RASSEGNA STAMPA

Il Sole 24 Ore
18 agosto 2002
di Giacomo Vaciago

I CONTI DELL'EUROPA
Le basi del testo del '97 in cinque capisaldi - Ma oggi può migliorare
Eventuali modifiche saranno utili se porteranno più integrazione e produzione di beni pubblici comuni

Il Patto di stabilità e crescita (approvato dal vertice europeo di Amsterdam del 1997) è stato di recente più discusso che spiegato. Merita invece tornare a considerare le ragioni, politiche, economiche, e - perché no - culturali (sia teoriche sia come modi di sentire) che concorrono a spiegare il Patto, i suoi punti di forza ma anche i motivi di debolezza; i successi che ha avuto ma anche i rischi che oggi produce.
Sono cinque le principali motivazioni-caratteristiche del Patto; tutte ben presenti nel periodo storico in cui venne pensato, costruito, e approvato, cioè nello scorso decennio. É bene verificare se quelle condizioni sono ancora rilevanti nei prossimi anni.
Prima caratteristica. Il Patto è garanzia di normalità, di equilibrio, onde evitare ciò che sarebbe invece eccessivo. Si riferisce a variabili decise dalla politica, perché queste possono essere sbagliate e divergere dalla normalità cui il resto, invece, tende.
Seconda motivazione. Nel lungo periodo, un'economia di mercato è stabile mentre attive politiche di stabilizzazione sono inefficaci. Aspettative razionali e informazione completa garantiscono infatti che le decisioni di famiglie e imprese mantengano sempre il sistema economico su un sentiero di equilibrio, nonostante i tanti shock - casualmente distribuiti - che lo colpiscono e temporaneamente lo allontanano dall'equilibrio. Insomma, l'economia è più stabile di quanto risulterebbe se ciò fosse perseguito dai Governi: basta saper aspettare.
Terza motivazione. La storia insegna che i debiti pubblici eccessivi prima o poi causano guai, non solo al Paese che ha fatto quei debiti ma anche ai Paesi a lui più vicini. Vi sono spillower negativi da cui fanno bene a difendersi i Paesi membri di una Unione.
Quarta caratteristica. Di norma, nei Paesi federali i livelli di governo regionali (come nel caso dei lander tedeschi) hanno l'obbligo di pareggio dei loro bilanci e/o possono fare debiti solo per investimenti. Anche perché i debiti di alcuni tendono a essere di tutti, come abbiamo visto nel caso dell'Argentina dove a indebitarsi troppo erano le Province.
Quinta motivazione. É più macroeconomica e riguarda l'efficacia della politica monetaria che è maggiore in condizioni di pareggio dei bilanci pubblici. I tassi di interesse sono infatti le variabili di controllo del livello del reddito nominale, che in assenza di politiche di bilancio sono in mano solo alla Bce.
Queste diverse motivazioni contribuiscono a spiegare perché sul Patto si sia in passato registrato un consenso tanto ampio. Ciò riflette l'allora prevalente stato della teoria economica (disillusa dei troppi precedenti attivismi keynesiani, che avevano finito col produrre una montagna di debito pubblico) e i concreti timori dei Paesi più virtuosi, che temevano di dover pagare per la dissolutezza degli altri. Ma ben rappresenta anche la fase intermedia in cui si trova la costruzione dell'Unione europea, che ha già caratteristiche da Stato federale senza peraltro esserlo ancora. Sicché il giudizio complessivo che ne possiamo dare è che del Patto ben si colgono le valenze positive se siamo in condizioni normali.
Se tutto, in media, va bene nell'area rappresentata da questo complesso di Paesi, il Patto aiuta i comportamenti dei singoli Paesi a concorrere all'ottimo comune. Il problema vero si pone allora quando per qualche motivo non valgono le premesse analitiche e politiche su cui il Patto poggia. Perché le aspettative degli operatori non sono razionali; le forze riequilibranti non sono abbastanza forti; gli shock cui il sistema è sottoposto non sono né casuali né simmetrici; e così via. Insomma, possono essere tanti i motivi - non sempre facilmente o prontamente individuabili - in base ai quali un patto che di solito è utile può invece diventare pericoloso. Per alcuni, o per tutti i Paesi che l'hanno condiviso.
A ben guardare, è questo il criterio che dovrebbe orientare la nostra futura riflessione: come ridisegnare un Patto che norma è utile per tutti e per ciascuno. Con maggior flessibilità e alcuni correzioni per continuare a garantire quello che nel lungo periodo è l'interesse comune, evitando che ne siano danneggiati alcuni Paesi che allora avrebbero l'incentivo ad abbandonare l'Unione. Mentre il problema di correggerlo per evitare che le regole del Patto danneggino tutti i Paesi che l'hanno firmato, questo è un problema che già ora non si dovrebbe porre, perché in quel caso il Patto sarebbe semplicemente sospeso.
Ma anche questa interpretazione - che a me sembra in linea con le basi analitiche, politiche e storiche del Patto stesso - è al momento controversa. Si può infatti sostenere sia che una recessione europea sospenderebbe il Patto, sia che una grave crisi, tipo quella tedesca di questi giorni, sospenderebbe dal Patto il Paese che ne è colpito. Servirebbe conoscere - se c'è - quale sia l'interpretazione ufficiale di questa parte del Patto decisa ad Amsterdam.
Ma sarebbe ancora più utile tornare a riflettere sulle basi analitiche del Patto, che riteniamo più valide per i prossimi anni e per favorire gli ulteriori sviluppi dell'integrazione europea. Nella mia di Oxford del novembre del 1992 sostenevo che eccessivi debiti privati sono altrettanto possibili e non meno dannosi di eccessivi debiti pubblici. Come tenerne conto?
Dall'altro lato, i vincoli alla finanza di singoli Stati si giustificano se c'è un ulteriore livello di governo che li comprende tutti, e che garantisce la corrispondente produzione di , pensiamo alla Difesa o alla realizzazione di infrastrutture di rango europeo. Quando ci arriviamo?
Credo che serva una priorità alla nostra riflessione: eventuali modifiche al Patto sono utili se grazie a ciò non arretriamo, ma avanziamo ulteriormente nell'integrazione europea e quindi nella cooperazione delle politiche e nella produzione di beni pubblici comuni.

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21 agosto 2002
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