Non è l'ora dei dogmi
Quando l'economia si deve aggiustare a una precedente fase di euforia - che ha fatto lievitare oltre misura i prezzi delle attività patrimoniali (azioni e immobili) - molto diversi sono gli esiti possibili. Il più favorevole è quello di un modesto rallentamento della crescita, aiutato da un corretto mix di politiche macroeconomiche espansive, e dal mantenimento di stabili, e positivamente orientate, aspettative di famiglie e imprese. Lo scenario peggiore è invece quello in cui non c'è più crescita, essendo state le banche coinvolte nel precedente boom ed essendone rimaste fuori gioco - ed è ciò che vediamo da dieci anni in Giappone.
Tra questi due estremi - soltanto una growth recession oppure una stagnazione di lungo periodo - la storia ci mostra un gran numero di esperienze, la cui maggiore o minore gravità dipende sempre e soprattutto da due fattori: il coinvolgimento delle banche; l'interagire tra le aspettative di famiglie e imprese e le politiche economiche dei Governi.
Negli Stati Uniti e in Europa, il 2002, pur deludendo le previsioni (speranze?) di rapida e intensa ripresa, non è finora andato tanto male. Ma si continua a temere il peggio - due giorni fa se ne è fatto interprete il presidente della Fed - qualora il pessimismo dei mercati finanziari contagiasse la propensione alla spesa delle famiglie. La fragilità della situazione americana è infatti ben evidenziata dall'elevato indebitamento delle famiglie, che hanno finanziato col debito - direttamente, e indirettamente via fondi pensione, garantito dagli aumentati valori della ricchezza privata - i maggiori consumi.
Troppo debito - anche perché quell'aumentata ricchezza era in parte illusione o truffa - e quindi rischio di recessione.
É quanto vediamo anche da questa parte dell'Atlantico? Nient'affatto. Non rischiamo una recessione per un eccessivo indebitamento delle famiglie e delle imprese, ma per tre diversi motivi:
1) perché arriva una recessione in America e ne subiamo il contagio;
2) perché in Europa abbiamo tante economie inefficienti e segmentate, che non funzionano bene quando l'economia mondiale tira, figuriamoci in un anno difficile come questo.
3) Perché nonostante quanto visto ai due punti precedenti, facciamo una politica macroeconomica sbagliata, cioè restrittiva, sia da un punto di vista monetario (il tasso di interesse della Bce è più alto oggi che nel '99 quando si era in pieno boom dell'economia mondiale!) sia dal punto di vista dei bilanci pubblici (grazie al Patto di stabilità, che ci dice - chissà perché - che il debito pubblico è più cattivo del debito privato).
Dati questi rischi, non stupisce che la Borsa resti orientata negativamente, e che anche la Fed sia tornata a valutare (salvo rinviarla di sei settimane) la necessità di un'ulteriore dose di espansione monetaria. Il paradosso è semmai un altro, ed è il dibattito europeo, molto accademico, sulla politica macroeconomica da realizzare quest'anno e il prossimo. Qualcuno ricorda le previsioni che si facevano un anno fa sul nostro 2002? L'Europa che cresceva più degli Stati Uniti e li sostituiva come locomotiva dell'economia mondiale? La Bce che alzava i suoi tassi perché la crescita europea doveva essere moderata? E i nostri Governi che dovevano, tutti, ridurre i deficit di bilancio?
Abbiamo imparato in questi mesi che i passati dogmi poco aiutano a capire un mondo tanto instabile. É vero che i debiti eccessivi fanno sempre male all'economia, proprio perché diventano un problema anche dei creditori e non solo dei debitori. Ma i problemi e i rimedi sono ovviamente diversi a seconda che eccessivo sia il debito privato o quello pubblico. Con più buonsenso, e meno polemiche, anche il dibattito sulla politica economica da fare in Europa e in Italia potrebbe essere più utile. Le nostre speranze di ripresa della crescita dipendono solo da due cose: riforme per far funzionare meglio l'economia (l'offerta) assieme a politiche macroeconomiche espansive (la domanda). Il resto è dibattito accademico o, peggio, solo polemica elettorale (pre o post).
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