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La relazione sul programma del Ppi allassemblea nazionale di Chianciano
di Pierluigi Castagnetti
PREMESSA"Ci troviamo a fronteggiare una società più mossa ed esigente che non sia mai
stata nel corso di questi anni". E un ammonimento di Aldo Moro del 1969,
quando gli ulteriori e strepitosi cambiamenti che si sono aggiunti nel corso di questi
trentanni non potevano neppure essere immaginati.
Aldo Moro è un simbolo alto della nostra memoria storica, ossia del ritorno a cui
questa nostra Assemblea si accinge. I suoi insegnamento sono numerosi. A noi oggi
interessa recuperare questo suo stimolo a osservare la realtà, a scrutarla, a indagarla
nel profondo per comprenderla bene prima di poterla governare.
Il programma del partito non può che partire da qui.
Il programma - e questo è linsegnamento di Luigi Sturzo - è il partito.
Certo il partito è anche altre cose: è la sua identità, la sua cultura, la sua storia,
i suoi uomini e le loro passioni. Ma il programma descrive la sintesi di tutto ciò e,
allo stesso tempo, delinea del partito limmagine offerta ai cittadini, agli
elettori. E lo strumento attraverso cui il partito interagisce con la società e con
lo Stato.
Ciò di cui discuteremo in questa Assemblea non è un programma elettorale per il
completamento della legislatura nazionale o per la prossima legislatura europea. Non è il
compendio dello scibile umano, non è tutto il programma che impegnerà liniziativa
del Ppi alla vigilia e allinizio del terzo millennio.
Oggi vogliamo discutere di alcune linee guida essenziali e caratterizzanti per il nostro
cammino, identicative del percorso e dellapprodo a cui tendono i popolari italiani
ed europei.
"Se su una strada conosciuta, un conduttore di carretto si sposta al passo, di notte,
gli basterà una modesta lanterna per illuminare il cammino. Al contrario una automobile
che percorre a grande velocità una regione sconosciuta dovrà essere munita di fari
potenti".
I fari potenti, le guide, i grandi obiettivi.
Conosciamo i limiti di credibilità che accompagnano i programmi e le parole in genere dei
partiti; le forze politiche sono giudicate per i programmi realizzati, i programmi
trasformati in fatti: "i programmi si vivono" ci dice ancora Sturzo.
PRIMA PARTE
LEUROPA "INCOMPIUTA"
Quanto è avvenuto negli ultimi tre giorni descrive drammaticamente le prospettive ma
ancor più i limiti del cammino dellEuropa.
Nel Consiglio europeo di Berlino i capi dei 15 governi hanno designato Romano Prodi alla
guida della Commissione europea per i prossimi cinque anni ed hanno finalmente approvato
l "Agenda 2000", cioè il programma di allargamento a est e a sud dei
confini dellEuropa. Sono occorsi dieci anni, dopo la caduta dei regimi comunisti,
per avviare lentamente e faticosamente la dilatazione verso il centro dellEuropa
geografica il perimetro di quella politica. Ma non si è ancora riusciti a dare a questa
ultima gli strumenti istituzionali, cioè di governo, adeguati alla sua responsabilità
politica.
Al punto che la contemporanea e drammatica esplosione della crisi del Kossovo, cioè in
uno dei gomitoli nazionalistici più aggrovigliati, esasperati e irrisolti di quella che a
dieci anni dal 1989 continuiamo a indicare come l "altra Europa", descrive
e denuncia la tragica impotenza di una Unione europea capace di fondere insieme undici
monete e tantissimi interessi, ma non di esercitare una influenza pacificatrice neppure a
poche centinaia di chilometri fuori dei propri confini.
Da qui lurgenza, moralmente e politicamente non più dilazionabile, di completare la
costruzione dellEuropa politica.
Lesigenza di un completamento della costruzione europea evoca anche
lincompiutezza e la inadeguatezza della costruzione già compiuta. Potrebbe sembrare
una provocazione. Cui si può rispondere ricordando lultima "Lettura" del
Mulino, tenuta da Tommaso Padoa Schioppa, il quale parla di avventura europea, da cui ci
viene un insegnamento costituito tanto dai successi quanto dalle incompiutezze
dellopera intrapresa. Lincompiutezza rende precario il già costruito, ma il
già costruito è opera tanto grande che rischia di farci dimenticare
lincompiutezza<! NEL >. Un rischio vissuto con drammatica intensità:
"Nel 1914 sono le parole conclusive della "Lettura"- lEuropa
aveva alle spalle centanni di pace quasi ininterrotta, pareva unita; si circolava
senza passaporto e il regime aureo dava una unione monetaria. Le persone della mia età
pensavano, in quellanno, che lera delle guerre fosse finita, come lo pensano
già oggi tanti trentenni. Chi ha visto, anche se da bambino piccolo, le case sventrate
dai bombardamenti e i soldati tedeschi o americani nelle strade o nelle case sa che non è
così. LUnione europea è opera incompiuta. E il rischio più grande che essa
corre è che le giovani generazioni non se ne rendano conto. Occorre allora che nel
mostrare ai giovani di oggi la lunga strada percorsa in 50 anni si indichi
lincompiutezza dellopera e ciò che a loro resta da fare. Perché essi non
abbiano un amaro risveglio in un nuovo 1914".
A cui si potrebbe aggiungere laltra incomputezza, quella della "civiltà
europea", a cui ha fatto recentemente riferimento il premio nobel Elie Wiesel:
"Se nel 1945, alla fine delle guerra, qualcuno mi avesse detto che per il resto della
mia vita avrei dovuto battermi ancora contro il razzismo, non lo avrei creduto .... Come
non avrei mai immaginato di dover combattere per la sopravvivenza dei bambini nel mondo,
per non lasciarli morire di fame, di malattia, di umiliazione, di schiavitù. Mai avrei
creduto questo. Il non amore per i bambini per me era morto ad Auschwitz, in quella
immagine dei vagoni carichi di questi piccoli innocenti che non potrò mai dimenticare....
Penso che questo sia dovuto forse alla qualità della nostra testimonianza verso le nuove
generazioni .... Leducazione è unoperazione che supera spesso i nostri
limiti, perché ci obbliga ad una coerenza esterna con la testimonianza della vita; ma è
quanto di più urgente ci sia oggi da fare ed è la sola via per rendere impossibile il
riprodursi dellorrore".
Le nuove istituzioni del governo politico dellEuropa
Compito primario, dunque, è il completamento della costruzione europea, procedendo in
direzione della modifica della costituzione europea, il cui oggetto è soprattutto economico,
mentre la natura, il significato, limpulso sono sempre stati e sono politici,
poiché intendono trasformare potere, sicurezza, istituzioni, Stati.
Gli stessi Trattati istitutivi in particolare quello Cee hanno del resto
valorizzato anche la dimensione morale, sociale e politica della costruzione europea,
della nuova Europa. Nel Preambolo del Trattato Cee, infatti, viene indicata la progressiva
integrazione degli Stati membri in unorganizzazione politica che potesse seguire
alla realizzazione dellintegrazione economica: gli Stati firmatari si dichiarano
"determinati a porre le fondamenta di una unione sempre più stretta fra i popoli
europei" nonché "ad assicurare mediante unazione comune il progresso
economico e sociale dei loro Paesi, eliminando le barriere che dividono
lEuropa".
Si deve aggiungere, precisando, che, nell'alternativa tra modello intergovernativo e
modello sovrannazionale, gli estensori dei trattati europei - da Parigi (1950) ad
Amsterdam (1997) - hanno compiuto una scelta apparentemente ibrida, e quindi di
compromesso, reso necessario dal fatto che senza una forte componente confederativa il
campo europeista sarebbe stato perdente. Questo compromesso si è dimostrato vitale e ha
permesso di avanzare molto lungo la linea alta del crinale, sicché molti dei caratteri
intergovernativi della costituzione europea sono caratteri permanenti, non aspetti della
transizione. Il potere comunitario integra, modifica e completa il potere degli Stati e
non lo sopprime. Riprendendo le fila del discorso interrotto, non bisogna peraltro perdere
di vista il fatto che lEuropa si è fatta realtà sul terreno economico.
Pochi dati danno la misura del successo europeo. LEuropa povera e distrutta nel 1950
ha oggi colmato gran parte del ritardo che aveva rispetto agli Stati Uniti. Il fondamento
di questo successo è il Trattato dsi Roma: testo di cui non si cessa di riscoprirne
lintelligenza economica, la completezza, la modernità di visione.
In ordine al rapporto governo-mercato, lUnione europea non ha, peraltro, instaurato
tra i Paesi membri una semplice zona di libero scambio o ancor meno uno spazio senza leggi
e senza poteri. Ha invece realizzato, attraverso un unico processo, sia la reciproca
apertura delle economie partecipanti, sia linfrastruttura pubblicistica delle leggi
e dei poteri necessaria al buon funzionamento del nuovo mercato che veniva creando.
Proprio per realizzare la libertà economica tra più Paesi, il legislatore comunitario ha
alleggerito, sfrondato, volto al mercato e alla concorrenza, la legislazione e le
istituzioni economiche degli Stati membri, con una forza e una coerenza che i processi
politici interni agli Stati non avrebbero saputo sprigionare. La costruzione europea ha
significato ad un tempo più mercato e più governo.
Tutto ciò riconosciuto, si deve tuttavia convenire che lUnione europea non solo non
è compiuta, ma la costruzione già compiuta probabilmente è ancora al di qua del
punto di non ritorno. Non è compiuta sul piano dellassetto costituzionale,
perché lUnione europea, che pure è un sistema costituzionale completo di tutti i
suoi organi ( un esecutivo, un Parlamento eletto, una " Camera degli Stati", una
Corte di giustizia), ancora non applica con pienezza i principi fondamentali che sono il
patrimonio della civiltà politica occidentale: la decisione a maggioranza, lancoraggio
al voto popolare dellesecutivo e del legislativo, lequilibrio dei
poteri. Non è compiuta inoltre sul piano delle competenze, perché
allUnione manca ancora la più fondamentale funzione di governo: dare ai
cittadini la sicurezza interna ed esterna.
Una completa legittimazione democratica è oramai condizione essenziale perché
lEuropa possa progredire. Non si potrà più ritenere ammissibile che
nellUnione si possa legiferare contro la volontà del Parlamento; o che una
minoranza, anche il più piccolo Stato membro, possa impedire, con il suo voto, decisioni
pur rispettose dei suoi diritti fondamentali. Oggi cresce il rischio che questo deficit
democratico dellordinamento dellUnione venga usato dagli Stati quale
argomento per negare allUnione le competenze che ancora le mancano.
La stessa crisi, aperta in questi giorni, della Commissione europea, al di là delle
ragioni specifiche che lhanno determinata, descrive limpossibilità a fare
funzionare lUnione con queste istituzioni e con queste inadeguate relazioni tra le
istituzioni.
Per molti anni il progredire dellEuropa è stato favorito da una sorta di dispotismo
illuminato e da un sistema di democrazia limitata espressioni nelle quali Padoa
Schioppa intende comprendere procedure pienamente legittime, ma ancorate al metodo
democratico solo dal vigere della democrazia entro gli Stati -, in virtù dei quali erano
(e sono) possibili decisioni più audaci, più rapide, spesso meno inceppate dagli
elementi ordinari della politica (il filtro dei partiti, lo scambio politico), e che, per
ciò stesso, giustificavano, forse, unincompiutezza costituzionale. La quale
peraltro non esclude che lEuropa si è formata nella piena legittimità
istituzionale, anche a non considerare che il disegno di unire politicamente lEuropa
è nata dalla caduta dei regimi totalitari delloccidente europeo e si è rafforzata
per la minaccia di quelli comunisti. Fondata quando una modesta porzione del globo era
retta da governi liberamente eletti, la Comunità è diventata unarea democratica in
espansione, che si allarga con lallargarsi dello spazio della democrazia.
Ma oggi sia lincompiutezza costituzionale sia il deficit democratico non sono
più possibili. Occorre lapplicazione piena del voto a maggioranza; occorre
lestensione della codecisione del Parlamento eletto a tutta la produzione
legislativa; occorre introdurre una gerarchia delle norme che separi le leggi dagli atti
normativi minori come condizione per estendere la codecisione. Inoltre, lUnione
dovrà acquisire ed esercitare poteri incisivi in materia di sicurezza interna ed esterna:
va anticipata nel tempo lattuazione degli obiettivi indicati nel Trattato di
Amsterdam, della armonizzazione e - io direi - unificazione delle politiche di
immigrazione e di asilo, e della Pesc, cioè della Politica estera e di sicurezza comune:
dopo quella della Bosnia e dellAlbania, oggi anche il dramma del Kossovo ci
sollecita lineludibile urgenza di dotare lEuropa di strumenti diplomatici e
militari che le consentano di gestire una sua irrinunciabile
Il federalismo: la divisione verticale del potere
Punto delicato e centrale della costruzione europea è il federalismo. Termine
ambiguo, il federalismo, col quale si può alludere a soluzioni opposte o, meglio,
si può alludere anche a una soluzione opposta a quella che noi Italiani intendiamo. Il
concetto di federalismo, in quella prima soluzione, non si ispira allintento
di limitare laccentramento sovranazionale del potere, bensì a quello opposto
di estendere il potere sovraordinato agli Stati.
Al pensiero federalista, inteso nel primo senso, risalgono in particolare due principi,
che hanno aperto nuove strade allevoluzione istituzionale italiana.
Il primo di essi è la necessità di una divisione del potere in un duplice senso: in
senso orizzontale (tra potere legislativo, esecutivo, giudiziario), ma anche in senso
verticale (tra livello nazionale, sub-nazionale, sovranazionale). Solo così viene
superata la concezione del potere come monolite, nata nei grandi Stati monarchici europei.
Solo in un sistema federale, che attui una tale divisione del potere, lelemento
potenzialmente totalitario del potere stesso trova un pieno antidoto.
Il secondo principio è la sussidiarietà: ogni livello di governo deve limitarsi
alle funzioni che non possono essere adeguatamente svolte ai livelli più bassi. Un
principio potente, in parte coincidente con quello della divisione, ma da non confondere
con questo, che garantisce una guida razionale alla scelta di dove collocare il potere,
evitandone eccessi o carenze.
Il principio di sussidiarietà può essere inteso in due accezioni: secondo la prima
accezione (sussidiarietà orizzontale) esso richiede che lo Stato intervenga solo
laddove i privati e le formazioni sociali non siano in grado di raggiungere un determinato
obiettivo. Al principio di sussidiarietà orizzontale si ispira lart. 2 della
Costituzione, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili delluomo, sia come
singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (la famiglia, la
scuola, ecc.). Secondo laltra accezione (sussidiarietà verticale)
lintervento pubblico deve essere affidato anzitutto al livello di governo più
vicino al cittadino e solo in via sussidiaria a livello di governo superiore. Questa è
laccezione incorporata nel Trattato di Maastricht, il cui art. 3B, paragrafo 2, è
così formulato: "Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità
interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui
gli obiettivi della misura prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli
Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni e degli effetti dellazione,
essere realizzati meglio a livello comunitario". Benché unanaloga enunciazione
non sia stata introdotta negli altri due Trattati, la stessa esigenza si pone con evidenza
in tutti i campi del diritto comunitario e, quindi, il principio di sussidiarietà assume
(deve assumere) una valenza generale.
Il principio così enunciato non può avere il significato di modificare i rapporti fra
Stato centrale o federale o regionale e Stati federati o Regioni allinterno degli
Stati membri, dato che esso concerne (ed è opportuno che continui a riguardare) soltanto
i rapporti tra lUnione e gli Stati membri, considerati in modo unitario, a
prescindere dalle loro divisioni interne.
Il principio di sussidiarietà deve conservare il suo carattere di verticalità ascendente,
evitando che sinverta nella tendenza ad estendere la competenza del livello
superiore e, nella specie, del livello comunitario: invece di partire dal basso si parte
dallalto. Insomma, nel principio di sussidiarietà verticale cè anche il
germe, da ostacolare, di un suo sviluppo in senso centralista, secondo lesperienza
federalista della Germania, dove, peraltro, questa possibilità è temperata
dallesistenza di una seconda Camera (Bundesrat) formata da rappresentanti dei
governi locali.
Nellordinamento comunitario il principio di sussidiarietà sempre più deve assumere
un significato diverso, del resto consono alla formulazione sancita nel Trattato quale
limite alla normativa comunitaria, nonché alla esistenza del diverso, ma funzionalmente
analogo principio di proporzionalità, sancito per le materie che sono di
competenza esclusiva della Comunità, ma è applicabile a tutta la normativa comunitaria,
in forza del quale "Lazione della Comunità non va al di là di quanto
necessario per il raggiungimento degli obiettivi del presente Trattato" (art. 3B,
paragrafo 3).
Una attenta riflessione merita la considerazione che non esiste alcun meccanismo
giudiziario preventivo volto ad accertare il rispetto del principio e che tale
accertamento presenta aspetti che attengono ad elementi di ordine politico.
LUnione e gli Stati nazionali
Il tema del federalismo col principio di sussidiarietà correlata rimanda al rapporto tra
lEuropa e i singoli Paesi. L'appartenenza a un Paese è parte integrante della concordia
discors che fa avanzare l'Europa.
Innanzi tutto è il sistema istituzionale stesso della Comunità che assegna una funzione
essenziale agli Stati, come si è già ricordato richiamando i Trattati istitutivi.
La funzione degli Stati è necessaria. L'Unione Europea chiede che ogni Paese
partecipi alla politica comune in quanto tale, non solo attraverso il voto dei suoi
elettori. Essa tratta coi Paesi. Ogni Paese ha obblighi e diritti in quanto soggetto
istituzionale.
Ma i Paesi fanno l'Europa anche facendosi concorrenza: basti pensare al
riconoscimento reciproco delle norme nazionali, la geniale invenzione che ha realizzato il
mercato unico attraverso un meccanismo che è esso stesso di mercato.
E anche quando la concorrenza non è prevista e nasce dalla volontà di prevalere,
l'antica volontà di potenza che ha animato gli Stati nazionali per tanto tempo, anche
allora, purché non violi le regole dei Trattati, essa è lecita, e addirittura utile:
allo stesso modo in cui è utile, in un sistema politico, la lotta tra i partiti se
rispetta le regole della democrazia (e le leggi amministrative e penali). Il
protezionismo non è consentito, ma il patriottismo sì.
Questo va detto senza perdere di vista il significato rivoluzionario del passaggio dalla
cooperazione precaria e sempre reversibile dei trattati internazionali a quella
istituzionalizzata in poteri sovrannazionali. Senza trascurare che fare l'Europa unita
significa liberare lo Stato nazionale dai rischi sempre latenti nella concentrazione di
tutta la sovranità in un solo soggetto, rompere una concentrazione esclusiva, che aiuta
la costruzione europea ad esaltare il ruolo benigno dello Stato nazionale, restituendogli
il valore positivo di tradizione storica e culturale come ancora una volta ricorda
Padoa Schioppa e ci si può permettere di aggiungere favorisce,
insieme, la spinta fortissima verso lesaltazione di articolazioni regionali
allinterno degli Stati esistenti e verso unaccentuazione della costruzione di
una reale struttura federale dellUnione europea.
Gli Stati-nazione hanno dato a uomini e donne, entro il loro spazio, gli stessi
beni che l'Unione Europea sta cercando di dare entro il suo spazio: pace,
sicurezza, regno della legge, senso di comune appartenenza,
Non a tutti è evidente il contributo che l'Italia ha dato al farsi dell'Europa. Nella
combinazione di modello intergovernativo e modello sovrannazionale, il presidio della
componente sovrannazionale, delle due quella veramente innovativa e sempre la più
minacciata, si deve soprattutto all'Italia.
Per molti aspetti, l'Italia è il Paese federatore dell'Europa. E lo è non solo per
l'impegno e per l'abilità con cui hanno operato in questo campo gli uomini di governo, di
partiti e generazioni diverse, ma anche perché essa dà all'Europa due apporti che
mancano ad altre nazioni: la sua profonda tradizione di universalismo; il suo essere
storicamente ancora in divenire.
L'identità italiana è storicamente "in divenire". Non è difficile ricordare
quanto differenti fossero fra loro gli italiani all'epoca dell'unificazione ed ancora
all'inizio del dopoguerra, e quanto differenti essi siano rimasti, senza che l'unità del
Paese sia stata seriamente minacciata. LItalia offre all'Europa l'esempio di un
popolo la cui identità è sempre in costruzione.
Si sente dire, a volte, che proprio il consenso per l'Europa prova che il nostro Paese ha
difficoltà a individuare il proprio interesse nazionale. Forse è vero il contrario:
l'interesse nazionale italiano è fortemente radicato in Europa.
La nazione è un fatto di cultura, lo Stato un fatto di potere. Rompendo la coincidenza
esclusiva tra Stato e nazione la costituzione europea segna un passaggio di cui
merita soffermarsi su due aspetti - nella storia della cultura, oltre che in quella del
potere.
Il primo aspetto riguarda quella che potremmo chiamare la "molteplicità delle
appartenenze" di ogni persona. Rompendo il legame esclusivo tra Stato e nazione la
costituzione europea ci ha aiutato a capire come le società a cui noi apparteniamo siano
molteplici: la città, la regione, la nazione, l'Europa, il mondo. Ognuna di esse ha una
propria storia ed è una matrice di cultura; a ognuna di esse apparteniamo, traendone
alimento e doveri.
E' proprio questa molteplicità di appartenenze, culturali oltre che civili, che
arricchisce la nostra vita e ci rende nello stesso tempo liberi. Una società non può
essere aperta nella sfera della politica se non lo è in quella della cultura. Nessuna
cultura è degna di questo nome se è chiusa.
Il secondo aspetto riguarda le connessioni e le distinzioni tra sfera della politica e
sfera della cultura. Soprattutto nel nostro secolo lo Stato, da poco divenuto laico, si è
dato un proprio credo - di nazionalità, di razza, di classe - e ne ha fatto la base di
totalitarismi dediti all'oppressione interna e all'aggressione esterna. L'unificazione
europea è stata concepita da De Gasperi in primo luogo anche per allontanarci da quei
totalitarismi. Più di quella americana, essa è nata nel presupposto di una pluralità
delle culture, innanzi tutto delle lingue, che di ogni cultura sono l'espressione più
ricca e diffusa. E' perciò esperienza e salvaguardia di una separazione tra politica e
cultura che lo Stato nazionale non aveva saputo compiutamente realizzare.
Il federalismo nella riforma costituzionale italiana
Per quanto concerne lordinamento italiano, in cui a proposito di principio di
sussidiarietà e sua attuazione - si è svolto un ricco dibattito in sede di Bicamerale e
di approvazione della legge Bassanini 1, del decreto legislativo di attuazione n. 112 del
1998 e delle relative leggi regionali di attuazione, è sufficiente soffermarsi su due
osservazioni: una attinente lindirizzo decisamente centralista assunto da alcuni
leggi regionali di attuazione, indirizzo col quale non si può concordare; laltra
relativa alliniziativa del governo che giudichiamo positivamente - di
riaprire la pagina della riforma costituzionale sulla forma di stato.
Al riguardo vanno però confermati il giudizio e le motivazioni già espresse dal nostro
Cerulli Irelli, secondo cui, anche rispetto al testo parziale discusso e approvato dalla
Camera dei deputati, la proposta risulta poco attenta alla filosofia della sussidiarietà,
non tanto perché si è ritenuto di non richiamarla come principio, stimato dalla
relazione illustrativa tra quelli fondamentali da inserire nella prima parte della
Costituzione, quanto perché lepicentro del disegno di legge costituzionale si
innerva sul momento regionale, assunto come volano (assieme allo Stato centrale)
principale di tutti i meccanismi di riarticolazione dellordinamento istituzionale e
amministrativo, mettendo eccessivamente in ombra il primato delle comunità locali, che
sono la prima sede della convivenza civile, dove il riferimento territoriale e
lidentità comunitaria e sociale fonda il suo insopprimibile radicamento.
Continuando a prendere in prestito le parole di Cerulli Irelli, gli stessi teorici della
globalizzazione e, come si dice con una immagine suggestiva, del villaggio globale, non
negano il bisogno di questo ancoraggio. Esso quindi permette di posare un disegno
ricostruttivo del patto costituzionale su un diffuso sentire umano dei processi della
socializzazione e dello stare insieme agli altri. Le identità collettive non sono
unastrazione intellettualistica, ma rispondono a vocazioni profonde, non espunte
dalla società dei consumi né dal "pensiero unico".
Di qui la necessità di una ricaratura del progetto che, secondo la nostra visione
della società postindustriale e delle risposte di democrazia da dare ai suoi problemi,
deve riportare a priorità il valore ( e perciò il peso costituzionale) delle comunità
locali.
Ciò non significa riaccendere una impropria conflittualità tra le
"corporazioni" delle Regioni, dei Comuni, delle Province e delle Comunità
montane per portare la tensione del braccio di ferro del potere in una direzione o in
quella opposta; ciò sarebbe tuttaltra faccenda.
La questione va affrontata e risolta partendo dalle considerazioni che danno risalto alle
principali finalità da assegnare alla riforma e risiedono nel ristabilimento di una
identificazione popolare con le primarie istituzioni di riferimento. E queste sono i
comuni, anche di minore dimensione, e via via le altre aggregazioni istituzionali e
amministrative come le associazioni intercomunali, le comunità montane, le province.
Il riconoscimento di tale presupposto dellautonomia locale, che procede sempre dalla
comunità più prossima al vivere associato, non comporta alcuna riduzione
dellimportanza dei momenti delle decisioni legislative, politiche, programmatorie di
scala più vasta, che debbono venire incentrate sulla scala regionale.
Ciò che conta è la congruenza delle soluzioni ordinamentali, anzitutto di livello
costituzionale, e quindi il rispetto senza riserve delle prerogative dellautonomia
locale.
Spazi certi ed ampi vanno riconosciuti e garantiti, in primo luogo, allautonomia dei
comuni e delle province ( e alle libere associazioni intercomunali e comunità montane),
di espressione delle loro preferenze politiche, sociali ed economiche.
Di qui la garanzia già scritta nellattuale articolo 128 della Costituzione ma
non sempre osservata nella realtà, dalla quale non si deve arretrare- di una autonomia
delle comunità locali che possa spaziare in un "ambito" largo, che può essere
soltanto quello dei principi fissati da leggi generali dello Stato (oltre che dalla
costituzione).
Viceversa imboccare la strada della legislazione regionale (magari pensata nella sua
effettività in termini di dettaglio) di ordinamento locale- come vediamo
nellesperienza di alcune Regioni a statuto speciale significa inevitabilmente
comprimere le dimensioni dellautonomia dei comuni e delle province e delle loro
aggregazioni.
In parallelo ne deriva una difficilmente resistibile accentuazione del carattere
gestionale e piccolo amministrativo delle Regioni; carattere esecutivo e
amministrativistico che, a nostro avviso, le Regioni sarebbero pericolosamente sospinte a
marcare attraverso lipotesi, da non forzare nel testo costituzionale,
dellelezione diretta del Presidente della giunta regionale.
Vistoso restringimento dellautonomia locale è segnato dalla soppressione della
"storica" prerogativa degli enti locali territoriali introdotta
dallantica legislazione post-unitaria e mantenuta anche nellepoca fascista,
lucidamente confermata dalla legge 142 e, da ultimo, dalla legge Bassanini 1- della
potestà regolamentare. Lipotesi Amato la relega ad una sorta di cadeau che,
di volta in volta, la legge statale o quella regionale potrebbe conferire ai Comuni e alle
Province, al di fuori di argini costituzionali e quindi da operare sostanzialmente ad
libitum.
La stessa cancellazione del principio costituzionale della "normalità"
dellesercizio delegato delle funzioni amministrative lart.118 viene
soppresso tout court, anche se esso certamente deve essere aggiornato in specie
alla luce della legge 59 (Bassanini 1)- non trova unalternativa convincente. La
riserva di legge statale solo per le funzioni fondamentali degli enti locali e la
riformulazione dellart.128 consegna, in pratica, alla discrezionalità della
legislazione delle Regioni lattribuzione delle funzioni ai Comuni; questa viene
affermata come principio generale, anche se la legge regionale può disporre
"diversamente" (e quindi trattenere le funzioni alla Regione o conferirle alle
Province, alle città metropolitane o al altri soggetti) con lunico limite
finalità, invero, non molto stringente- di "assicurarne lesercizio
unitario".
La riapertura, da parte del governo, della pagina della riforma costituzionale, che
giudichiamo fatto importante e positivo, deve stimolare la nostra riflessione su alcune
questioni essenziali o, per meglio dire, sulla nostra ispirazione fondamentale.
La nostra determinazione a conservare lindicazione di una democrazia reale,
sostanziale, non nominalistica - che voglia innanzi tutto cercare di mobilitare le energie
profonde del popolo e indirizzarle in modo consapevole verso uno sviluppo democratico
sostanziale e non abbandonarle a una deriva plebiscitaria o a una seduzione bonapartista,
ai cui rischi ci richiama quotidianamente lamico Guido Bodrato deve essere
forte e decisa. Questa appena enunciata è una indicazione messa in crisi da una
degenerazione, rispetto al DNA della Costituzione, di soggetti politici in crisi di
motivazione culturale e progettualità politica e da una emersione, nel "pensiero
unico", del singolo o dellindividuo - frutto a sua volta del rapido processo di
secolarizzazione in atto.
La riforma costituzionale e istituzionale di cui il Paese ha bisogno deve perciò essere
ampia, profonda, coraggiosa, radicalmente innovativa, ma per essere tale deve porsi in uno
spirito di continuità e di fedeltà con i "principi fondamentali" della
Costituzione vigente.
Il destino di questo Paese è nella ricucitura del rapporto tra politica ed etica,
nella capacità della politica di riacquistare fiducia, e di meritarsela, di esprimere
unalta progettualità, di affermarsi come una delle più elevate attività
delluomo nella società.
Volendo tradurre in un valore fondamentale ed essenziale le considerazioni prima svolte
sul principio di sussidiarietà nel progetto Amato, si deve sottolineare come la
Costituzione, ponendo in primo piano i principi di autonomia e di indipendenza dello
Stato, allo stesso modo di una qualunque comunità politica, attua in una certa misura il
superamento dello Stato nazionale ottocentesco, o quanto meno di una sua forma basata sul
principio di sovranità. Si può e si deve insistere perché lo Stato svolga regolarmente
le sue funzioni, ma non si può immaginare che esso imponga la sua sovranità
sulluomo, perché, delluomo, lo Stato e le sue istituzioni devono essere solo
strumento di servizio. Lo Stato è una parte del corpo e della società politica, è una
parte specializzata degli interessi del tutto. La nostra Costituzione anticipa e anzi ha
reso possibile la trasformazione oggi in atto, introducendo il principio secondo cui
"La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti
della Costituzione" e proclamando nellarticolo 5 che la Repubblica, una e
indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali. Le
autonomie locali, prima che enti, sono comunità, organizzate a livello di comuni e a
livello più ampio, provinciale, in cui si esprime la personalità delluomo e, in
quanto tali, lo Stato le riconosce e deve promuoverle. Ciò corrisponde anche al principio
di sussidiarietà.
Laffermazione dellautonomia implica essenzialmente il riconoscimento a Comuni
e a Province di potestà pubbliche nel perseguimento di finalità e di interessi propri
delle collettività corrispondenti, secondo un proprio indirizzo politico-amministrativo,
distinto e relativamente indipendente da quello statale e da quello regionale.
Collocandosi in questordine di idee, la Carta europea dellautonomia, la cui
ratifica ed esecuzione è stata disposta in Italia con la legge 30 dicembre 1989, n. 439,
ha inteso definire lautonomia locale come "il diritto e la capacità effettiva,
per le collettività locali, di disciplinare e gestire, nellambito della legge,
sotto propria responsabilità ed a favore delle proprie popolazioni, una parte importante
delle funzioni pubbliche".
Noi auspichiamo quindi un federalismo in cui forme di autogoverno, da parte di
comunità, di gruppi, di organismi, possano trovare uno sviluppo fino ad oggi non
conosciuto, che abbia come fine una diffusa autonomia, basata sulla solidarietà, che è
lesatto opposto di ogni chiusura autarchica, localistica e municipalistica, che, in
fondo, è assolutamente centralistica e si alimenta basandosi su un deficit di
rappresentatività democratica.
Riconfermiamo la nostra adesione e fedeltà ai supremi valori della Costituzione vigente,
a quei valori che Dossetti definiva non solo civilmente vitali ma anche inderogabili per i
cristiani. Le Costituzioni sono organismi viventi. Si è detto autorevolmente che è un
non senso dire, come si dice, che una Costituzione deve essere rifatta perché i tempi
sono cambiati, perché lo scopo di una Costituzione è proprio quella di sopravvivere al
cambiamento dei tempi, per assicurare la continuità politica nel susseguirsi delle
generazioni. Ad una Costituzione, pertanto, bisogna far sempre esprimere il massimo delle
sue potenzialità e non bisogna contrabbandare un deficit di ciò che Habermas
chiama amore costituzionale per insufficienza della Costituzione. Dobbiamo seriamente
riflettere su questo deficit, che ci fa correre il rischio di trasformare le
riforme in prodotti freddi e inanimati di ingegneria costituzionale, che ci farebbero
rimanere fermi al palo e alimenterebbero una crescente delegittimazione.
Confermiamo la nostra fiducia in un sistema costituzionale che fondi il concetto di democrazia su tre cardini: i cittadini, i partiti e le istituzioni. Non c'è democrazia senza diritti e doveri dì cittadinanza; senza soggetti parti- portatori di diverse visioni del "bene della patria"; senza istituzioni rappresentative in un sistema bilanciato di poteri, e non unificate e annullate nella figura di un capo carismatico. Il riconoscimento del ruolo dei partiti è un dato centrale della Costituzione, che va conservato. I partiti sono gli interpreti di quelle passioni collettive senza le quali si rende difficile il formarsi di quel "patriottismo della Costituzione", in cui nelle società moderne e democratiche si manifesta la stessa identità nazionale.
SECONDA PARTE:
RICOSTRUIRE COESIONE E FIDUCIA NEL PAESE
Litaliano Romano Prodi guiderà la Commissione europea nei prossimi anni di avvio
delleuro e di allargamento dellUnione; Roberto Benigni vince tre oscar; il
capitalismo italiano comincia a investire decine di migliaia di miliardi allestero;
una generazione nuova di finanzieri e di manager sta organizzando nel settore delle
telecomunicazioni e del credito prove tecniche di vero libero mercato; nel mezzogiorno
nascono nuove imprese in misura percentualmente superiore al nord; nel nord est il 75% dei
lavoratori cambia azienda nel giro di tre anni; complessivamente nel paese il numero dei
lavoratori con rapporto atipico sta raggiungendo quello dei tradizionali lavoratori
dipendenti.
Cè vitalità, dinamismo, nuova classe dirigente più di quanto non si dica in
questItalia dalle mille facce.
Sì, è proprio così: oltre alle facce accattivanti del dinamismo e della modernità, ci
sono quelle dei problemi, per lo più comuni ai paesi industrializzati, anche se non di
rado da noi assumono dimensioni più gravi, come quelli della caduta demografica e dello
"sfrangiamento" del tessuto sociale e, dunque, del conflitto generazionale che -
se non governato e sanato - potrebbe approdare a sbocchi drammatici.
La questione demografica. Il Patto fra generazioni. La famiglia
come motore di cambiamento sociale
La questione demografica ci pone di fronte a un evento che si presenta per la
prima volta nelletà moderna e si configura dunque come una esperienza del tutto
nuova.
Landamento demografico assume direzioni opposte nella varie parti del pianeta:
cè un decremento della popolazione soprattutto (ma non solo) nei Paesi sviluppati,
in Europa e, in particolare, nel nostro Paese, mentre nel resto del pianeta la popolazione
è in aumento.
In Italia, nei 30 anni tra il 1961 e il 1991 la popolazione era cresciuta di circa 6
milioni di unità e nel precedente trentennio, tra il 1931 e il 1961, laumento era
stato di 9 milioni. Ma nel decennio in corso il Paese si trova con una crescita nulla. Nel
1994 lItalia è stato il primo paese al mondo in cui gli ultrasessantacinquenni
avevano superato le persone con meno di quindici anni.
Se noi guardiamo al periodo della crescita, notiamo un andamento congiunto
dellaspetto demografico e dellaspetto economico. Tralasciando aspetti e
implicazioni della crescita possiamo affermare che litaliano (e leuropeo) si
è abituato a vivere in una società in crescita, nella quale domanda e produzione sono in
continua espansione e ogni generazione si è trovata, a un qualche punto della vita, ad
essere più numerosa della generazione precedente. Ogni persona anziana, guardando
indietro alla sua età giovanile o alla sua infanzia, si vedeva collocato, in questa età
più giovane, in una società meno numerosa, in città meno affollate, in paesaggi meno
costruiti, in ambienti meno provvisti di beni materiali. Limmagine che si presenta
avanti ai suoi occhi è leffetto congiunto della crescita demografica e di quella
economica.
A questa sensazione di crescita gli europei sono abituati, allincirca,
dallavvento della rivoluzione industriale.
Le ultime tendenze, invece, mostrano che la componente demografica sta esaurendo il
proprio contributo e, addirittura, sta cambiando di segno.
Peraltro, al decremento demografico in vaste aree del pianeta, non solo in quelle
sviluppate e ricche, corrisponde un incremento in aree in via di sviluppo o di povertà.
In questa fase storica tale scarto demografico non può essere "livellato" dalla
"mano invisibile" del mercato. Un sistema di libero scambio - a condizione che
il mercato funzioni e nella aree di scarsità si abbiano risorse per acquistare ciò che
altrove è abbondante - è possibile livellare scarsità e abbondanza di un bene. Ma per
gli individui ciò non è possibile in questepoca storica.
Dobbiamo quindi cercare di immaginare le conseguenze di questo decremento, poiché questo
è il fenomeno che investe il nostro Paese e il nostro Continente. Supponendo per
lItalia una mortalità ancora in leggera diminuzione e unintensità
riproduttiva pari a quella straordinariamente bassa dellultimo quindicennio, le
dimensioni della popolazione, tra trentanni esatti - secondo Livi Bacci -
diminuiranno di quasi sei milioni di unità, il che vuol dire che la popolazione oltre i
60 anni aumenterà oltre i cinque milioni e quella sotto i 60 diminuirà di quasi 11; in
altri termini i sei milioni del decremento demografico sono la somma algebrica
dellaumento di popolazione (circa 5 milioni) oltre i 60 anni e della diminuzione
della popolazione (circa 11 milioni) al di sotto dei 60 anni.
A parte previsioni e proiezioni, è certo che buona parte del futuro demografico (di un
futuro demografico non remoto) è iscritta nella realtà di oggi, per cui la riduzione
della popolazione avviene per la forte diminuzione della nascite dovute alla bassa
riproduttività, che, se dovesse permanere, comporterà che le nascite si ridurranno
ancora di più. Non siamo in presenza di un fenomeno di allentamento della pressione
demografica una tantum, che di per sé potrebbe persino esplicare benefici effetti.
Ciò che preoccupa, in altri termini, non è la diminuzione numerica della popolazione
i sei milioni in meno nei prossimi trentanni -, ma il fatto che questa
diminuzione, poiché avviene a causa del debole rinnovo della "base" della
piramide per età, può finire col capovolgere la piramide stessa e, comunque, ci pone di
fronte a un fenomeno non sostenibile e a processi demografici ugualmente non sostenibili,
né sotto il profilo bio-demografico, né sotto quello economico o sociale.
Risulta, dunque, evidente, che il problema è: come modificare le tendenze in corso.
Una prima ipotesi potrebbe essere lopzione migratoria. Essa potrebbe compensare in
modo algebrico il deficit delle nascite, ma richiederebbe un flusso migratorio di
tale dimensione di portata analogo a quello che alimentò laperta società
nordamericana allinizio del secolo che è uneventualità improponibile
in questa fase storica. Lopzione migratoria può avere solo carattere meramente
sussidiario e complementare
Daltra parte, non sussistono altre ipotesi per cui possiamo fare affidamento sulla
virtù di meccanismi autocorrettivi, che si dovrebbero mettere in moto perché la società
e le persone che la compongono ricevono un danno dalle tendenze demografiche in corso,
dando luogo a una composizione meccanica delle scelte individuali. Di questo spontaneo
assestamento non si può avere alcuna certezza, poiché i comportamenti sono dettati
unicamente dalla convenienza individuale e non sarà certo per far piacere alla società
che le coppie metteranno al mondo un certo numero di figli, ma solo se questo verrà a
coincidere con i loro interessi e con le loro aspettative.
Peraltro, è oggetto di evidente constatazione che sulle decisioni individuali pesano
spesso condizionamenti sociali e normativi che ne appannano la volontarietà. Se ne deduce
pertanto che lintervento pubblico può correggere solo in parte linsieme delle
decisioni individuali, anche se ci si può chiedere se sia legittimo che la mano pubblica
intervenga a forzare comportamenti individuali legati al fondo più intimo della
personalità, della libertà e della responsabilità degli individui e delle famiglie,
essendo la famiglia "come unisola che il mare del diritto può cambiare, ma
lambire soltanto; la sua intima essenza rimanendo metagiuridica". Peraltro la
laicità dellapproccio non esclude e non può significare esclusione di qualsiasi
tipo di adesione a un principio etico, dal momento che gli interventi della mano pubblica
debbono essere idonei a orientare verso il bene della società scelte individuali, la cui
espressione costituisce diritto inalienabile della personalità. Siamo a un passaggio che
coinvolge quelletica della responsabilità, di cui, sul piano speculativo, è
massimo esponente Hans Jonas e di cui già si è fatta applicazione riflettendo
sullimmenso potere che lumanità ha acquistato sullambiente, tale che
essa potrebbe modificarlo irreversibilmente o quasi irreversibilmente, o potrebbe
compromettere la sua fruizione da parte delle generazioni future, o addirittura potrebbe
mettere a repentaglio la sopravvivenza stessa di queste generazioni future. Hans Jonas,
per lappunto, ha formulato per lambiente questo principio etico e lo ha
espresso con le seguenti formule, tra loro equivalenti: "Agisci in modo che le
conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di unautentica vita
sulla terra", oppure "Non mettere in pericolo le condizioni di
sopravvivenza indefinita dellumanità sulla terra", oppure
ancora :"Includi nella tua scelta attuale lintegrità futura delluomo
come oggetto della tua volontà".
Come non si può dubitare della legittimità dellintervento della mano pubblica al
fine di indirizzare comportamenti privati in campo ambientale, non possiamo in alcun modo
dubitare a prescindere da opzioni di fede e di morale - della legittimità
dellintervento pubblico anche in campo demografico.
Si tratta di un obiettivo non facile da perseguire. Basti pensare che in Svezia le
politiche volte a questo scopo - peraltro coronate da successo poiché in pochi anni hanno
portato lindice di fecondità da 1,3 a 2,5 - vengono qualificate con il termine di art.
"larte di sincronizzare e conciliare vita professionale, condizione di genitore
e crescita individuale".
Da queste considerazioni traiamo, dunque, in prima istanza, una forte motivazione a
impegnarci con maggiore determinazione nel sostenere le nostre scelte prioritarie verso
politiche di sostegno alle famiglie e allinfanzia e di accoglienza alla vita.
Ma è opportuno procedere verso un ulteriore grado di affinamento delle considerazioni
stesse. Se le attuali tendenze sono sfavorevoli e dannose per la collettività; se
lintervento pubblico è lecito e già in numerosi modi dirige e influenza i
comportamenti demografici, possiamo e dobbiamo specificamente domandarci quale tipo
dintervento sia possibile per modificare una situazione che giudichiamo non
conveniente.
Sotto laspetto della dimensione economica del fenomeno, la bassa natalità si spiega
col fatto che i costi dei figli sono cresciuti più dei benefici che essi arrecano,
perché lo sviluppo comporta crescenti investimenti sui figli in cibo, vestiario, salute,
formazione, istruzione; perché la cura dei figli richiede tempo, soprattutto da parte
della madri, che lo sottraggono al lavoro e, quindi, alla produzione di reddito tanto più
alto quanto più alta è la loro istruzione.
Nella società contadina era razionale avere molti figli, perché il loro costo aveva una
scarsa incidenza, il tempo della madre aveva scarso valore sul mercato e i figli rendevano
benefici fin da piccoli, nella prospettiva di avere benefici ben maggiori una volta
adulti, specialmente per il sostentamento dei vecchi genitori.
Nelle società postindustriali i valori di tutti i suddetti elementi si sono profondamente
alterati, con la conseguenza che lequilibrio tra costi e benefici si raggiunge a
un livello molto più basso di fecondità. Questo è un dato oggettivo, ma, giacché
è possibile, è preferibile esprimere lo stesso concetto con un linguaggio non economico,
il quale concettualmente ha o potrebbe esprimere una certa ambiguità. Infatti, se si
trattano i figli esclusivamente come un bene privato, potrebbe farsi derivare il
corollario che sarebbe erroneo dare provvidenze alle famiglie numerose per rimediare al
loro disagio, perché esse hanno razionalmente scelto il "bene figlio" a
preferenza di altri beni e, quindi, non sono in una situazione diversa di chi avesse
acquistato una macchina dalla manutenzione troppo costosa. Si tratterebbe, invero, di un
corollario arbitrario, poiché abbiamo visto che il problema della riproduttività va
collegato a un principio etico, in forza del quale è pienamente sostenibile
lassunto che i figli sono un "bene pubblico", in quanto essi producono
servizi di cui tutta la collettività beneficia. Il più evidente di questi servizi è che
da adulti essi erogheranno contributi che serviranno per esempio a pagare le
pensioni di tutti, anche di chi legittimamente ha deciso di non avere figli.
Lintervento pubblico, allora, dovrà agire alleggerendo i costi, soprattutto quelli
traducibili in moneta. Si può pensare a una serie di possibili interventi: da quelli
diretti ad alleviare il carico di lavoro domestico che grava specialmente sulla donna, che
permetterebbero di conciliare lavoro e cura della prole; al coordinamento dei tempi e
orari di lavoro, scuola, vacanza; alla fruizione di servizi per infanzia e bambini;
alleliminazione delle distorsioni circa i carichi contributivi e fiscali per chi ha
figli e chi non ne ha; a interventi che accelerano lautonomia economica dei figli
dai genitori, a veri e propri sostegni monetari a famiglie con figli.
Per il vero, le considerazioni svolte ci hanno condotto nel cuore del welfare, del
nuovo patto sociale che lega il futuro dei giovani col futuro del Paese, garantisce i
diritti degli anziani e dei minori, riconosce nella famiglia una ricchezza civile, oltre
che una, anzi la fondamentale società naturale, governa limmigrazione, affronta
unitariamente e, nello stesso tempo, in modo articolato, la questione della sanità,
dellassistenza sociale e della previdenza.
Il welfare è un sistema di trasferimenti tra generazioni che, nella sua attuale
strutturazione, secondo Livi Bacci, tende a deprimere le nascite. E quindi evidente
che, per favorire una ripresa delle nascite, occorrerebbe una profonda riforma del welfare.
Se guardiamo al sistema dei trasferimenti nelle società tradizionali, prevalentemente
agricole, vediamo che il rapporto tra le generazioni è caratterizzato da una semplice
ripartizione di funzioni: agli adulti competono le spese di cura e allevamento dei figli e
il sostegno dei genitori azioni e inattivi; col passare del tempo gli adulti si fanno
vecchi e vengono sostenuti dai figli divenuti adulti che sopportano anche il carico dei
loro propri figli. Lo Stato non preleva e non distribuisce. Il legame tre generazioni è
assicurato da questo patto via via rinnovato col succedersi delle generazioni stesse.
Certo capitava che alcune coppie avessero molti figli e altre pochi o nessuno, creando
disuguaglianze, che, in una certa qual misura, venivano temperate da adozioni, da
contratti di garzonato dalle solidarietà familiari, dalla carità pubblica e privata.
Tuttavia la riproduzione serviva anche ad assicurare la sopravvivenza in vecchiaia. Le
generazioni erano legate fra loro dal doppio vincolo biologico ed economico.
Nello Stato moderno invece è la mano pubblica che opera i trasferimenti: preleva dagli
adulti produttori e trasferisce agli anziani, facendosi carico del loro mantenimento.
Lonere della cura e dellallevamento dei figli continua a gravare direttamente
salvo qualche sostegno per listruzione- sui genitori, ma il vincolo economico
diretto tre generazioni si spezza, perché il figlio non sottoscrive nessun patto di
reciprocità con i genitori di cui questi possono avvalersi in vecchiaia. Il patto che
egli sottoscrive è invece con lo Stato, al quale cede una parte dei suoi proventi dietro
promessa di trasferimenti futuri sotto forma di pensioni, secondo determinate regole.
Ladulto che sceglie di non avere figli o che fa figli meno della media- non
sostiene lonere del loro mantenimento e conta sul patto sottoscritto con la mano
pubblica per essere sostenuto in vecchiaia. Sotto il puro profilo economico
lasciando da parte altri benefici, soprattutto quelli affettivi- egli ci guadagna,
mentre ladulto che ha più figli della media subisce una perdita. Lasciato a se
stesso un tale sistema tende a trascinare la fecondità verso il basso, privilegiando
comportamenti "sotto la media" oggi rappresentata dallavere un
figlio o dal non avere nessun figlio-. Ma minore fecondità significa aumento della quota
anziani e, in parallelo, aumento del loro peso politico e maggiore resistenza al mutamento
delle regole in favore delle giovani generazioni, autoalimentando così le distorsioni.
Le implicazioni di un sistema di governo dei trasferimenti che consideri aspetti
demografici di equità - analizzate sul piano scientifico conducono alla
conclusione che i prelievi da chi produce debbono incidere sul reddito prodotto depurato
dai trasferimenti o da una parte significativa dei trasferimenti-, che le
famiglie operano verso i figli. Questo non garantisce che la produttività rimanga a
livello di rimpiazzo - almeno due figli per coppia ma, ci dicono le analisi -
raggiunge due obiettivi positivi. Il primo comsiste nelleliminazione o nella
attenuazione delliniquità consistente nelleccesso di prelievo da coloro che
investono in figli che, si ripete, sono un bene pubblico, oltre che privato, che
produrrà benefici per la collettività- e neutralizza la deriva demografica verso il
basso che si mette in moto quando si privilegia una riproduttività "sotto la
media" -meno di due figli per coppia -. Il secondo obiettivo positivo è che si
riattiva un vincolo di responsabilità, perché ognuno sa che indipendentemente dalle sue
libere e inalienabili scelte riproduttive deve, in qualche modo, contribuire al welfare
del bene pubblico "figli".
A considerazioni analoghe si giunge considerando i trasferimenti secondo letà. Con
riferimento al 1995, calcolando il saldo tra il "dare" contributi, imposte
e tasse versate- e l "avere" valore dei servizi e contributi
ricevuti (istruzione, sanità, assistenza, pensioni)- ne è risultato che giovani e
anziani sono percettori netti e gli adulti sono erogatori netti. Questo risultato non è
una sorpresa, ma ciò che interessa è che i giovani sono beneficiari netti solo fino a 17
anni; da 18 a 59 anni il segno si inverte, per poi cambiare di nuovo dopo i 60 anni. In un
sistema nel quale si trasferisce molto verso gli anziani (da 60 in poi e con quote pro
capite relativamente elevate) e poco verso i giovani (fino a 17 anni e con quote pro
capite mediamente assai più basse) è conveniente, per ogni adulto, avere pochi figli
poiché a questi viene trasferito poco dalla mano pubblica e poiché si sa che lo Stato
sarà generoso in vecchiaia. In aggiunta, questo sistema aggrava in modo abnorme la
funzione solidaristica del sistema familiare, poiché sovraccarica di doveri i genitori e
tarpa le ali al passaggio dei giovani allo stato adulto. Al contrario in una situazione
nella quale si trasferisse assai di più ai giovani e proporzionalmente meno agli
anziani- si attenuerebbe lincentivo alla bassa fecondità perché ai figli lo Stato
trasferisce maggiori risorse e da essi si può, inoltre, sperare di avere qualcosa in
vecchiaia. La mano pubblica, che regola il profilo della curva dei trasferimenti per
età, è teoricamente in grado di calibrarne la forma e i punti di flessione in maniera
non ostile alla produzione nellintento di governare la deriva riproduttiva.
La seconda conclusione è che la bassa riproduttività è la conseguenza principale di
una "sindrome del ritardo" che ha colpito la società italiana, in maggior
misura delle altre società europee, spostando in avanti in maniera quasi patologica
letà dellassunzione di responsabilità e della formulazione delle scelte.
La riproduttività può vedersi come un processo, il cui inizio è costituito dalla
maturazione sessuale e il termine dalla perdita delle capacità biologiche di concepire.
Una delle linee portanti della storia demografica e sociale dell'Europa nell'età
moderna è stato il graduale spostamento dallinizio effettivo delletà
riproduttiva da poco dopo la pubertà a età molto più elevate, che oggi, per la
maggioranza delle donne italiane, si avvicina ai 30 anni. Questo processo storico di
"ritardo" ha avuto unaccelerazione durante gli ultimi ventanni.
Risultati di indagini nazionali sulla fecondità mostrano, in etrema sintesi, due aspetti
di uno stesso fenomeno. Il primo riguarda le aspettative: quasi tutte le donne e quasi
tutti gli uomini desiderano avere almeno una figlia o un figlio e, in media,
desiderano averne due; tuttavia le decisioni riproduttive appaiono come lapprodo
finale di una serie di tappe ordinate in sequenza. Il secondo aspetto è costituito dal
progressivo ritardo col quale generazioni recenti completano gli studi, iniziano
lattività lavorativa, escono dalla famiglia, formano una convivenza, divengono
genitori.
Veniamo al primo aspetto: è vero che tutti sentono il desiderio di maternità e di
paternità e intendono realizzarlo, ma è vero anche che ciò non avviene
incondizionatamente. Dalle inchieste emerge nitidamente che giovani donne e giovani
uomini reputano necessario che ambedue i partner abbiano concluso gli studi; che abbiano
un lavoro; che vi sia una disponibilità di una casa; che si crei una unione stabile quasi
sempre formalizzata in matrimonio. Il percorso che conduce alla riproduzione indica la
costruzione di una stabilità gradualmente acquisita per tappe intermedie. E qui sta
la differenza col passato: non tanto nella condizione di "stabilità", requisito
per avere dei figli, ma nella gradualità con cui questa viene raggiunta a differenza di
generazioni precedenti dove distacco dalla famiglia di origine, casa, lavoro,
gratificazioni sessuali, matrimonio potevano anche essere eventi contemporanei. E
qui che sinnesta il secondo aspetto: le indagini confermano lallungamento
delle teppe del percorso delle generazioni recenti a cominciare dallallungamento del
periodo di studio che avviene non solo perché una maggiore porzione dei componenti di
ciascuna generazione affronta studi più lunghi, ma anche per leccessiva lunghezza
del tempo impiegato per concludere i vari curricula.
La concatenazione dei ritardi fra le varie tappe fa sì che per un consistente e
crescente numero di coppie il momento della decisione di avere un figlio, pur desiderato e
programmato, avvenga in una fase avanzata della vita riproduttiva; che questo programma
non possa essere realizzato, per alcune, per il sopraggiungere dellinfertilità, per
altre per rottura o instabilità dellunione, per altre ancora per la percezione di
un costo fisico psicologico accresciuto rispetto alle aspettative.
La sindrome del ritardo è quindi una causa della bassa riproduttività. La mano pubblica
non può efficacemente intervenire su pulsioni, valori, ideali che sono alle radici
profonde delle scelte di riproduttività, le cui modificazioni possono avvenire solo per
lazione- difficilmente concertabile- di istituzioni, associazioni, gruppi, individui
che determinano il corso della cultura. Però può -e deve- intervenire per attenuare
gli effetti della sindrome: può contenere la lunghezza effettiva della formazione in
durate più ridotte ed europee; può incoraggiare esperienze e spezzoni di lavoro precoci,
contemporaneamente agli studi ed accelerare lingresso definitivo al lavoro
rimuovendo le cause dellabnorme disoccupazione; può rendere più facile
laccesso ad un alloggio (mutui agevolati, detassazione di donazioni; affitto) può,
in breve, accorciare il tempo di percorrenza di quelle tappe il cui superamento apre
laccesso alle decisioni riproduttive. Tutto ciò che accelera il conseguimento
dellautonomia, che incoraggia lassunzione di responsabilità, che rende
spendibili formazione e capacità senza attendere che esse ristagnino o deperiscono
oltre a sostenere lo sviluppo- ha un doppio significato demografico. Da un lato
diminuisce, per le famiglie, il tempo di dipendenza dei figli e quindi alleggerisce il
costo di riproduzione e formazione della prole; dallaltra accorcia i tempi delle
scelte riproduttive.
Se la scarsità di risorse umane che si va profilando è insostenibile; se è del tutto
incerto che si verifichi un riequilibrio spontaneo per opera dellazione miracolosa
della mano invisibile; se accettiamo il principio etico che non è lecito compromettere
sviluppo e benessere delle generazioni future; se sottoscriviamo la liceità entro i
ben noti limiti che cultura e diritto ci impongono- dellintervento pubblico e
politico (che peraltro già opera in mille surrettizi modi) possiamo concludere che si
sono individuate due precise linee dazione. Alle quali si aggiunge una terza linea,
complementare e sussidiaria.
La prima linea dazione consiste nel raddrizzare la deriva demografica - che conduce
a comportamenti "sotto la media" - guidata dal modus operandi dei
conferimenti sociali. Si tratta di una deriva tanto più potente in quanto mossa dallo
spostamento di oltre un terzo delle risorse prodotte - al netto delle spese per beni
pubblici quali difesa e giustizia e per interessi sul debito pubblico - e che può mutare
rotta modificando il profilo per età dei trasferimenti netti a favore dei giovani.
La seconda linea dazione consiste nellazione normativa sociale e finanziaria
diretta ad accelerare i passaggi di vita che precedono e condizionano la piena autonomia e
lassunzione di responsabilità; si accorcia così la dipendenza dalla famiglia
alleviando il costo dei figli e si attenua la "sindrome del ritardo", causa non
secondaria della bassa fecondità.
Le due linee dintervento si sovrappongono e si combinano in un maggiore
investimento pubblico nella risorsa umana che oggi è scarsa bambini e
giovani migliorandone la formazione, anticipandone lautonomia, accrescendone
la produttività. Tra laltro, contribuendo a sollevare la famiglia da compiti
eccessivamente impegnativi e prolungati di sostegno e protezione, questa doppia azione
introduce maggiore equità riducendo linfluenza delle risorse familiari oggi
determinante- sul destino delle generazioni dei figli.
La terza linea, sussidiaria e complementare, riguarda la politica dellimmigrazione
che certamente dovrà contemplare adeguati flussi dingresso, un preciso cammino
dintegrazione, un forte investimento sociale sugli immigrati stessi e, soprattutto,
sui loro figli.
Una scuola moderna e dinamica ma non leggera,
primo e sempre più spesso unico luogo di incontro e di formazione
di tutti, senza distinzione alcuna, i ragazzi italiani
Una scuola e una università "più corte" e "più intense", più
moderne, più intrecciate con il mondo del lavoro (attraverso esperienze di formazione in
alternanza scuola-lavoro) e con la realtà esterna, possono aiutare a ridurre la sindrome
del ritardo, cioè a inserire prima e meglio i giovani nel mondo del lavoro e nelle
responsabilità adulte, riducendo frustrazioni, prolungamenti adolescenziali e paura del
futuro.
I giovani debbono poter raggiungere la laurea a 22/23 anni come nella maggior parte dei
paesi europei e per far ciò occorre non solo abbreviare i cicli scolastici e la durata
dei corsi di laurea come parlamento e governo italiani stanno facendo, ma occorre puntare
a riforme capaci di "concentrare" produttivamente gli anni
dellinsegnamento universitario, riducendo sia gli abbandoni che i prolungamenti.
Utile a questo proposito può risultare il caso della Gran Bretagna dove solo il 6,2%
degli studenti abbandonano luniversità (in Italia il 64%) grazie alla riforma
introdotta allinizio degli anni 80 che ha creato una sorta di processo di
controllo della "maturazione progressiva" dello studente, strettamente regolato
nel quadro di un sistema di tutorato. Tale maturazione deve avvenire in principio entro
tre soli anni e l80% degli studenti raggiunge entro tale termine il traguardo.
Ma dalla Gran Bretagna possiamo trarre indicazioni per realizzare ciò che da tempo
inutilmente perseguiamo, cioè il Sistema nazionale di valutazione. Non possiamo
impiantare semplicemente il modello dellOfsted (Office for Standard in education)
probabilmente non adeguato alla nostra scuola, ma non possiamo più dilazionare la
trasformazione del nostro modello attraverso la realizzazione : di una vera
autonomia che porti le nostre scuole a diventare - sotto la guida di un dirigente con ampi
poteri di indirizzo - "scuole della comunità"; di una politica di formazione e
di incentivazione delle migliori professionalità tra i docenti; di un modello di
controllo della qualità dellinsegnamento e dellapprendimento da parte di una
autorità indipendente, non allo scopo di distribuire "voti, premi e punizioni"
ma per acquisire tutti gli elementi utili a migliorare lattività educativa; di un
organico sistema educativo integrato, in cui istituzioni statali e non statali siano messe
in "condizioni paritarie" per poter svolgere la medesima funzione educativa
pubblica.
Ma la scuola è il luogo, ormai lunico luogo, in cui convivono tutti i ragazzi e
i giovani italiani, senza distinzione di censo, classe, etnia o religione: una occasione
straordinaria, lunica disponibile, di formazione e di trasmissione, oltre ai
valori della tradizione e delletica esistenziale, dei valori e dei saperi "di
vita quotidiana" (dalleducazione alla politica, a quella sanitaria, a quella
stradale), lunico luogo in cui è possibile promuovere le alfabetizzazioni
elementari per il cittadino europeo: quella linguistica e quella informatica.Non
vogliamo una scuola totalizzante o anche solo invasiva degli spazi propri della famiglia e
della società, ma vogliamo che tutte le sue potenzialità vengano messe a disposizione di
una
società alle prese con i nuovi problemi derivanti anche dalle scarse occasioni di reale
socializzazione offerte oggi ai giovani.
"Duri contro il crimine, duri contro le cause del crimine",
per poter vivere meglio la città
Il governo ha risposto in modo serio e responsabile alla domanda di sicurezza che ormai
proviene da tutte le città: le iniziative legislative proposte, potranno essere
migliorate in parlamento, ma già rappresentano lindicazione di una strada giusta.
La sicurezza personale è un problema reale, soprattutto in certe aree urbane. In questi
giorni si è rivisto un atteggiamento di rincorsa a modelli stranieri. Più che il modello
di Rudolph Giuliani, trovo condivisibile lorientamento di Blair, che in questi anni
ha parlato di un governo "duro col crimine, ma anche con le cause del crimine".
Cè infatti un aspetto repressivo che va rafforzato, ma ci deve essere anche la
consapevolezza che per stroncare certi fenomeni bisogna prosciugare lo stagno in cui
nascono, questo stagno spesso (non sempre) si chiama povertà, sfruttamento, esclusione.
Il ruolo delle amministrazioni locali è quello, concorrente con le forze di polizia ma
non di competenza primaria, di contrasto severo dellillegalità di ogni tipo (e non
solo alla criminalità), ma è anche quello, primario, di dare risposte a livello
educativo, con interventi sul piano della scuola, della famiglia, dei centri di
aggregazione e di integrazione, della casa.
Dobbiamo comunque rafforzare le politiche di integrazione, perché questo sono nello
stesso tempo politiche di prevenzione della microcriminalità, e non solo di quella. Oltre
alle politiche sui servizi tradizionali, si può pensare a: convenzioni fra Comuni e
Questure e le principali comunità di extracomunitari, per la segnalazione di episodi e
individui sospetti, e per lidentificazione, o quantomeno laccertamento della
nazionalità e della zona di provenienza, dei fermati e degli indagati (attraverso domande
mirate e sempre più specifiche, ovviamente non sul piano investigativo). Questa
esperienza, oltre ad essere uno strumento prezioso per le forze dellordine e per
certi servizi dei comuni è unoccasione di responsabilizzazione delle comunità di
extracomunitari. La sicurezza personale decresce laddove è sempre più rarefatta la
presenza degli abitanti, e quindi ci si deve porre primariamente il problema dei centri
storici, evitando che questi siano pieni di banche e boutique ma poveri di piccoli
negozi di alimentari e di servizi di base (come le poste). Questi sono gli strumenti
primari per mantenere una presenza abitativa nei centri storici , mentre per incoraggiare
i piccoli commercianti a restare nei centri storici bisognerà pensare a incentivi e forme
di detassazione: un centro storico con sempre meno servizi e negozi di base si accompagna
spesso ad una popolazione sempre più anziana, la quale è sempre più in difficoltà a
viverre in queste zone: il risultato è un centro storico sempre meno abitato e quindi
sempre meno presidiato, e per questo più insicuro.
In ogni caso non è giusto identificare il problema della sicurezza urbana esclusivamente
con quello della presenza dei cittadini extracomunitari nel nostro territorio, né
considerarlo un problema esclusivamente o anche prevalentemente italiano: analogo
dibattito sul tema si sta oggi sviluppando in ogni paese europeo, segno che nasce da
ragioni "strutturate" al nostro modello di sviluppo e di civiltà. La
marginalità che diventa esclusione, la perdita dei legamenti che "tengono"
internamente il tessuto sociale, labbassamento della soglie etiche nei comportamenti
privati e pubblici, la secolarizzazione dei modelli di vita, sono tutte ragioni che
spiegano quanto sta accadendo.
Ma, trattandosi di fenomeno diffuso, è giusto che lUnione europea, affronti - per
quanto possibile - lonere di una risposta organica e unitaria. Ad oggi le previsioni
di intervento dellUnione possono basarsi solo sul Trattato di Amsterdam, dal quale
è possibile dedurre:
Lacquis di Schengen
Fino ad ora lobiettivo della cooperazione nel settore della giustizia e degli
affari interno si è sempre limitato alla libera circolazione delle persone, con
leffetto di concentrare gli sforzi sulle misure destinate a compensare la scomparsa
dei controlli alle frontiere interne con ladozione di un certo numero di strumenti
utili e importanti a questo scopo.
Grazie allintegrazione dellacquis di Schengen, lUnione disporrà
di una base solida su cui sviluppare al suo interno uno spazio di libertà, di sicurezza e
di giustizia, operando un vero salto qualitativo.
Politiche di immigrazione e di asilo
Per quanto riguarda le future priorità, considerazioni diverse vanno fatte per la
politica dellimmigrazione, da un lato, e per la politica dasilo,
dallaltro. Le iniziative in questi settori saranno determinate essenzialmente da
fatto che , il nuovo trattato impone di intervenire nei cinque anni successivi alla sua
entrata in vigore, in numerosi settori connessi allimmigrazione e al diritto di
asilo, sia sul fondo che sulla procedura. E già stata realizzata unenorme
massa di lavoro, ma gli strumenti impiegati presentano due punti deboli: essi, infatti, si
basano spesso su atti privi di effetti giuridicamente vincolanti, come le risoluzioni e le
raccomandazioni, e non prevedono adeguati meccanismi di controllo. Limpegno
contenuto nel trattato di Amsterdam di utilizzare in futuro questi strumenti comunitari,
consente di correggere questi punti deboli.
Per quanto riguarda limmigrazione, tutti gli Stati membri sono soggetti a
pressioni migratorie da diverse provenienze - spesso nuove -, a cui devono reagire
trovando un equilibrio fra considerazioni economiche e considerazioni umanitarie, e
conformandosi, al tempo setto, alla legislazione comunitaria e a importanti accordi
internazionali.
Questo problema si pone in particolare nel caso del ricongiungimento dei nuclei familiari,
che costituisce la più importante forma di immigrazione sempre ammessa dallUnione.
La soppressione dei controlli alle frontiere interne e la nozione di frontiere esterne
comuni rendono tanto più auspicabile per lUnione lo sviluppo di impostazioni simili
e di una cooperazione più stretta nel settore della politica dellimmigrazione. In
questo conteso, una priorità importante sarà la lotta contro la tratta di esseri umani.
Nel caso del diritto di asilo, la base comune su cui si poggia il regime europeo
dei rifugiati è la convenzione di Ginevra del 1951. Il Consiglio ha già deciso
orientamenti comuni in merito allinterpretazione della definizione di rifugiato
contenuta in detta convenzione, ma sono ancora necessarie altre misure. E urgente,
infatti, completare la convenzione di Ginevra con strumenti che consentano di far fronte
alle attuali sfide in questo campo e, in particolare, a casi di afflusso in massa di
persone che cercano protezione internazionale.
Integrazione dei cittadini di paesi terzi
Un concetto ampio di libertà non può essere riservato esclusivamente ai cittadini
dellUnione europea; deve includere anche i cittadini di paesi terzi il cui numero
supera i dieci milioni che vivono legalmente e stabilmente nei nostri Stati membri.
Fino ad oggi, le iniziative in questo settore non hanno avuto carattere generale e
sistematico, limitandosi piuttosto a misure specifiche (per esempio il coordinamento sei
sistemi di sicurezza sociale). LUnione europea deve pertanto definire una posizione
comune precisando in che misura i cittadini di paesi terzi e i cittadini dellUnione
europea hanno diritto allo stesso trattamento. Analogamente, si dovrà proseguire la
riflessione per quanto concerne la distinzione fra i cittadini di paesi terzi giunti di
recente e quelli che vivono da tempo negli Stati membri in modo stabile.
Uno spazio di sicurezza
I vantaggi offerti da uno spazio di libertà, tuttavia, sono nulli se coloro che ne
beneficiano vivono in uno spazio in cui non si sentono sicuri.
Come emerge chiaramente, lobiettivo del nuovo trattato non è creare uno spazio di
sicurezza europea consistente in un territorio comune nel quale verrebbero applicate
procedure uniformi di individuazioni e di indagine a tutti i servizi repressivi competenti
in Europa per le questioni di sicurezza.
Il trattato di Amsterdam fornisce piuttosto un quadro istituzionale nel cui ambito
sviluppare unazione comune fra gli Stati membri in settori indissociabili dalla
cooperazione in materia di polizia e di giustizia sociale. Lobiettivo dichiarato è
prevenire e combattere , al livello appropriato, la criminalità "organizzata o di
altro tipo, in particolare il terrorismo, la tratta degli esseri umani e i reati contro i
minori, il traffico illecito di droga e di armi, la corruzione e la frode".
Europol
Il nuovo trattato riconosce il ruolo centrale ed essenziale che dovrà svolgere Europol,
quando esige ladozione di un certo numero di misure specifiche nei cinque anni
successivi alla sua entrata in vigore. In particolare, esso prevede una cooperazione
rafforzata e compiti di carattere maggiormente operativo per questo organismo. Ora che la
convenzione Europol è stata finalmente ratificata da tutti gli Stati membri, è dunque
importante avviare al più presto le azioni per lattuazione di queste misure, al
fine di mettere Europol in condizione di svolgere pienamente il suo nuovo ruolo di
strumento indispensabile di cooperazione europea. Questi sviluppi dovrebbero basarsi
sullacquis dellUnità droghe di Europol che, in quanto precursore di Europol
stesso, ha acquisito una certa esperienza in settori quali lo scambio di informazioni, il
sostegno tecnico operativo, le analisi dei rischi e le relazioni sulla situazione.
Criminalità organizzata
La criminalità organizzata rappresenta una minaccia grave e di proporzioni crescenti. Il
fenomeno si sta sviluppando a livello internazionale ad una velocità allarmante sul piano
sia della composizione che delle dimensioni. Da un lato, infatti, assistiamo alla
creazione di strutture illegali nei paesi dellUnione europea da parte di un certo
numero di organizzazioni criminali straniere, dallaltro, vediamo aumentare anche la
cooperazione transfrontaliera fra tali organizzazioni e gruppi criminali allinterno
degli Stati membri.
La risposta dellUnione a questa sfida è contenuta nel Piano dazione destinato
a combattere la criminalità organizzata, approvato dal Consiglio europeo di Amsterdam,
che prevede unimpostazione integrata a tutti gli stadi, dalla prevenzione alla
repressione fino a i procedimenti penali.
Uno spazio di giustizia
NellUnione europea, i sistemi giudiziari si sono sviluppati gradualmente nel
corso di un lungo periodo. Un sistema giudiziario indipendente ed efficace è un elemento
essenziale dello Stato di diritto che è parte delle nostre tradizioni comuni.
Avendo seguito evoluzioni diverse nei vari Stati membri, i sistemi giuridici presentano
notevoli differenze sia sul fondo che per quanto riguarda le procedure. E gioco
forza constatare che gli ostacoli e le difficoltà che ne derivano sono difficilmente
comprensibili per i cittadini dellUnione, che dovrebbero poter circolare liberamente
e condurre la loro vita privata in uno spazio senza frontiere interne, vuole essere uno
spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Lo stesso dicasi per le imprese che operano nel
mercato unico.
Le procedure
Le procedure devono offrire ovunque le stesse garanzie, in modo da evitare disparità di
trattamento da una giurisdizione allaltra. Le norme possono essere diverse purché
siano equivalenti. Questo riguarda in particolare le questioni relative ai diritti dalla
difesa, dove andrebbero sviluppati dei principi comuni e dei codici di buona pratica
(interpretazione, acquisizione delle prove, ecc.), ma potrebbe valere anche per quanti
partecipano alle procedure a titolo diverso (testimone, vittima, esperto, ecc.). In
materia penale, inoltre, le norme di procedura non dovrebbero limitarsi ai processi
suscettibili di concludersi con una condanna, bensì anche allesecuzione di una
sentenza come, per esempio, la confisca di beni, la scarcerazione anticipata o
condizionale e la reintegrazione.
Mercato, crescita e volontà politica per una efficace politica del lavoro
Il partito erede della tradizione politica che ha favorito la nascita e lo sviluppo
delleconomia di mercato in Italia e in Europa, non ha bisogno di spendere parole per
descrivere la propria convinzione che senza crescita non cè lavoro. Né per
commentare positivamente quanto sta accadendo in queste settimane in alcuni settori
importanti delleconomia del paese, in particolare in quello del credito: abbiamo
voluto lEuropa anche per questo, perché sapevamo gli effetti virtuosi del
"vincolo esterno" rappresentato da un mercato europeo sempre più competitivo -.
E ora vogliamo il completamento della riforma fiscale, di quella lavoristica e
previdenziale (alla scadenza prevista del 2001), del processo di privatizzazioni anche a
livello locale, proprio per aiutare il sistema-paese a partecipare da protagonista alla
competizione sempre più dura del mercato globale.
Ma noi continuiamo a parlare di economia sociale di mercato, perché seppure
riconosciamo che i valori del mercato, soprattutto quello del rischio,
dellintraprendenza e della libertà sono assolutamente congrui con il magistero
ideale cui ci ispiriamo, essi non possono essere fine a se stessi, essendo tali solo se
inseriti in una finalità ulteriore che non può che essere quella della creazione di
condizioni di lavoro e, dunque, di benessere e dignità per luomo, nella sua
globalità che trascende sicuramente quella del mero homo economicus.
Ecco perché a nostro avviso loccupazione, in particolare quella giovanile, resta
lobiettivo principale su cui concentrare le politiche di sviluppo.
Il problema si presenta in modo diverso al sud e al nord.
Al sud la dimensione della disoccupazione giovanile, quantunque in parte
"compensata" da ampi spazi di lavoro sommerso ovviamente non protetto, è
veramente drammatica. Il nuovo Patto sociale, la dit, gli altri incentivi
allinvestimento programmati per il 1999, i patti territoriali e i contratti
darea finalmente sulla strada della concretizzazione, il decollo di una rete
portuale tra le più moderne dEuropa, dovrebbero promuovere condizioni nuove sia per
lemersione di attività sommerse, sia per nuovi investimenti e, dunque, per la
creazione di nuovi posti di lavoro.
Due ostacoli ancora restano, uno di più facile e rapido superamento dellaltro.
In primo luogo va detto che occorrono aree industriali, occorrono strumenti urbanistici
non aleatori, occorrono società per infrastrutturare e allestire "chiavi in
mano" aree e stabilimenti: le Regioni, gli enti locali, le Camere di Commercio, le
banche, le associazioni di categoria, vanno aiutati a mettersi insieme per costruire
società operative allo scopo.
Ma occorre intensificare ulteriormente la lotta alla criminalità organizzata.
Non tutto il mezzogiorno soffre questa piaga, ma tutto il mezzogiorno paga
limmagine negativa di questa piaga. Questa è la priorità della priorità da
affrontare se si vuole vincere la resistenza psicologica allinvestimento di tanti
operatori, italiani e stranieri, che cominciano a vedere il nostro mezzogiorno come
alternativa all "investimento conveniente" fino ad oggi (ma non sarà più
così, almeno nella stessa misura del passato) rappresentato dallIrlanda, dalla
Spagna e dal Portogallo .
Lo Stato sta facendo molto per la lotta alla criminalità macro e micro. Ma non basta
ancora. Fino a che un imprenditore può dire "non mi fido" a investire,
("eppure vorrei, perché questa è larea geograficamente più interessante per
i mercati del duemila") non avremo efficacemente affrontato il problema del nostro
mezzogiorno.
Nel settentrione e in gran parte del centro del paese i problemi invece sono diversi anche
grazie a un tasso di disoccupazione più "europeo".
In questa parte del paese semmai i problemi sono quelli legati alla diffusione di nuove
forme-lavoro meno protette: rapporti a tempo determinato, lavori interinali, rapporti a
"ritenuta dacconto" o a "partita IVA" che spesso mimetizzano
rapporti di lavoro più tradizionali. Soprattutto i giovani sentono la suggestione ma
anche i limiti di queste nuove forme di rapporto che descrivono una accentuata
flessibilità e assieme una precarietà, fonte di insicurezza e apprensione verso il
futuro. Meglio, sicuramente, il lavoro che un mezzo lavoro (il part time comincia a
diffondersi, anche se la legislazione lavoristica italiana non ne consente ancora una
grande utilizzazione come avviene in molti paesi dove grazie ad esso, come in Olanda, il
tasso di disoccupazione è stato fortemente abbattuto), o che lassenza di lavoro. Ma
queste forme atipiche di lavoro lasciano nella totale incertezza il futuro delle nuove
generazioni, anche sotto il profilo assistenziale e previdenziale. E necessario
quindi prevedere qualche forma di copertura anche parziale rispetto ai rischi
assistenziali e sanitari (maternità, salute, ...) e qualche forma
assicurativo-previdenziale: il versamento del 12% di contribuzione dovrebbe dare diritto a
tali lavoratori a un "bonus previdenziale" da spendere presso istituti
previdenziali pubblici o privati.
Ma assieme allarea dei rapporti libero professionali fittizi, sta crescendo anche
quella del lavoro autonomo vero e della micro-imprenditorialità che concorre a rendere
più vitale e dinamica la nostra società. Questo è il volto moderno di un paese che si
sta giorno dopo giorno omologando agli altri più avanzati dellEuropa.
LEuropa torna, dunque, come opportunità, non solo perché oggi lobiettivo
lavoro è assunto come tale dal Trattato di Amsterdam, perché lUnione si è
impegnata a monitorare semestralmente i Piani dAzione per loccupazione dei
singoli paesi, e perché lUnione si è impegnata a perseguire larmonizzazione
prima delle politiche fiscali poi delle più ampie politiche economiche nazionali, ma non
di meno perché lEuropa si è impegnata a realizzare una strategia di promozione
dello spirito imprenditoriale con le seguenti iniziative.
Una strategia di promozione dello spirito imprenditoriale
Per promuovere una cultura dellimpresa si è scelta una strategia a due livelli. Da
una parte, occorrono misure dirette a incoraggiare i singoli a creare imprese e dotarli
delle competenze necessarie perché le loro iniziative abbiano successo, tra laltro
attraverso riforme dei sistemi distruzione e di formazione, scambi culturali e
misure destinate ad eliminare gli ostacoli alla creazione di imprese. Daltra parte,
per promuovere lo spirito imprenditoriale ci si impegna a creare condizioni favorevoli
alla nascita, alla crescita ed al trasferimento delle imprese. Questo richiede una
semplificazione amministrativa radicale e un miglioramento del contesto normativo e
finanziario, come pure laccesso ai programmi comunitari, in particolare a quelli
riguardanti le attività di R&ST ed i Fondi strutturali.
Azioni prioritarie per promuovere la cultura dellimpresa
Per dar vita a una comunità imprenditoriale forte e dinamica, si vuole cominciare con lo
sviluppare lo spirito diniziativa e di rischio, superando un certo numero di
pregiudizi esistenti nella società, nei nostri sistemi distruzione e negli ambiti
istituzionali, che sono poco propizi allo spirito imprenditoriale e rivelano una scarsa
consapevolezza dellimportanza di una cultura dimpresa. Lattività
imprenditoriale
Questa nostra Assemblea dovrà aprire una nuova stagione di dialogo dei popolari con il
paese.
Vogliamo conoscere e farci conoscere.
Vogliamo che i cittadini di questo paese ci riconoscano per quello che siamo, persone
serie, che non credono alle mode effimere che attraversano anche la politica, per nulla
prigioniere né nostalgiche di un passato che è passato.
Vogliamo restituire alla politica la dignità che le compete, quella della
responsabilità, e restituire al paese la politica di cui ha bisogno.
Chiediamo al paese di avere fiducia in sé, nelle sue risorse, nella intraprendenza e
laboriosità dei suoi cittadini, nella solidità delle sue istituzioni, nella genialità
di una nuova classe dirigente che sta emergendo nelleconomia, nella finanza, nella
cultura, nella politica.
Chiediamo ai giovani di farsi coinvolgere nel grande disegno di completamento
dellEuropa, di appassionarsi a questa impresa di costruzione di una nuova patria che
avviene per la prima volta nella storia con le sole armi della politica, di pretendere dai
propri governanti un impegno coerente in questa direzione: noi popolari ci siamo, siamo
persone serie.
Chiediamo agli italiani di aiutarci a rinnovare in senso federale larchitettura del
nostro Stato: il federalismo non sarà concesso, sarà tale solo se sarà costruito nella
fatica di un impegno delle comunità locali, di tutte le comunità locali.
Vogliamo ricostruire armonia, amicizia, convivialità, vivibilità nelle nostre città:
vogliamo che tutti possano camminare tranquillamente per la strada, guardandosi in faccia
senza timori e senza riserve, vogliamo che la gente torni a dirsi "buongiorno" e
"buonasera".
Per ciò promettiamo di pretendere noi per primi dallo Stato di essere duro con i
criminali, con quanti si sottraggono alla legalità della convivenza, ma vogliamo anche
che nessuno si senta solo di fronte alla sua miseria e al suo disagio.
Vogliamo che nel nostro paese entri solo chi è autorizzato e, chi lo è, deve poter
contare su una casa, una scuola, un tempio per il suo culto, che non siano i piazzali
delle stazioni o dei porti delle nostre città.
Vogliamo che gli imprenditori riprendano a investire, qui, soprattutto nel nostro sud,
guardando allo Stato e alla legge con minore diffidenza, sapendo anzi di contare
sullaccoglienza dovuta a chi produce ricchezza e lavoro.
Vogliamo per i giovani una scuola accogliente, familiare, moderna, esigente e severa nel
trasmettere sapere e nel pretendere virtù.
Vogliamo che i nostri giovani possano concludere il ciclo formativo allinizio e non
alla fine dei ventanni, vogliamo che non sprechino tempo prezioso in attesa della
chiamata per il servizio civile o militare, o dellammissione a concorsi, o
dellaccesso al primo lavoro.
Vogliamo che possano progettare con fiducia e realizzare con tempestività la propria
famiglia e la propria casa, possibilmente costruita con prestiti non onerosi.
Vogliamo che siano effettivamente liberi di fare figli, di dare vita, potendo contare su
uno Stato premuroso e collaborante, che punta molte delle sue risorse al sostegno delle
nuove famiglie, ai servizi per le nuove famiglie, alla qualificazione della scuola statale
e non statale, soprattutto quella dellobbligo, consapevole che le donne e gli uomini
italiani del futuro li formiamo noi oggi, nei loro primi anni di vita.
Vogliamo rassicurare anche chi è più anziano e dirgli che non deve temere le leggi
future poiché ciò che oggi riceve è ciò che gli compete e che nessuno potrà
sottrargli; se domani sarà chiesto di lavorare un po più a lungo sarà anche
perché lo Stato ha deciso di aiutare un po più i nostri figli.
Vogliamo dire alle donne che i popolari le considerano davvero il motore dei cambiamenti
sociali di cui il paese ha bisogno. Oggi dopo la conquista di una dignità e una parità
che hanno tardato troppi anni ad arrivare, dopo in particolare la conquista di una
genitorialità consapevole, la donna e la coppia sentono ancora di più la gioia di dare
vita e la responsabilità di assicurare a chi non ha chiesto lui di nascere un ambiente e
condizioni di civiltà degni di essere vissuti; in questo senso siamo certi che la donna
in primo luogo e i genitori in particolare sentono la responsabilità di coltivare
maggiori attenzione e impegno per la politica.
Vogliamo continuare a cambiare lItalia.
Poichè, lo ripetiamo, i popolari sono seri, vogliamo dire a tutti: su loro potete
contare.
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il
collegio senatoriale di Tino Bedin |