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La relazione sul programma del Ppi all’assemblea nazionale di Chianciano
Vogliamo continuare
a cambiare l’Italia

I popolari sono seri; vogliamo dire a tutti:
su loro potete contare per due grandi obiettivi: completare il disegno europeo e ricostruire nel paese la fiducia in sé e nel proprio futuro

di Pierluigi Castagnetti

PREMESSA
.
Le strade parallele del paese e dello Stato
. il PPI propone due grandi obiettivi: completare il disegno europeo e ricostruire nel paese la fiducia in sé e nel proprio futuro

PRIMA PARTE: L’EUROPA "INCOMPIUTA"
.
le nuove istituzioni del governo politico dell’Europa
. il federalismo: la divisione verticale del potere
. l’Unione e gli Stati nazionali
. il federalismo nella riforma costituzionale italiana

SECONDA PARTE: RICOSTRUIRE COESIONE E FIDUCIA NEL PAESE
La questione demografica
Il patto fra generazioni
La famiglia come motore del cambiamento sociale
. Una scuola moderna e dinamica ma non leggera, primo e sempre più spesso unico luogo di formazione di tutti, senza distinzione alcuna, i ragazzi italiani
. "Duri contro il crimine, duri contro le cause del crimine", per poter vivere meglio la città
. Mercato, crescita e volontà politica per una efficace politica del lavoro

CONCLUSIONE

PREMESSA

"Ci troviamo a fronteggiare una società più mossa ed esigente che non sia mai stata nel corso di questi anni". E’ un ammonimento di Aldo Moro del 1969, quando gli ulteriori e strepitosi cambiamenti che si sono aggiunti nel corso di questi trent’anni non potevano neppure essere immaginati.
Aldo Moro è un simbolo alto della nostra memoria storica, ossia del ritorno a cui questa nostra Assemblea si accinge. I suoi insegnamento sono numerosi. A noi oggi interessa recuperare questo suo stimolo a osservare la realtà, a scrutarla, a indagarla nel profondo per comprenderla bene prima di poterla governare.

Il programma del partito non può che partire da qui.
Il programma - e questo è l’insegnamento di Luigi Sturzo - è il partito. Certo il partito è anche altre cose: è la sua identità, la sua cultura, la sua storia, i suoi uomini e le loro passioni. Ma il programma descrive la sintesi di tutto ciò e, allo stesso tempo, delinea del partito l’immagine offerta ai cittadini, agli elettori. E’ lo strumento attraverso cui il partito interagisce con la società e con lo Stato.
Ciò di cui discuteremo in questa Assemblea non è un programma elettorale per il completamento della legislatura nazionale o per la prossima legislatura europea. Non è il compendio dello scibile umano, non è tutto il programma che impegnerà l’iniziativa del Ppi alla vigilia e all’inizio del terzo millennio.
Oggi vogliamo discutere di alcune linee guida essenziali e caratterizzanti per il nostro cammino, identicative del percorso e dell’approdo a cui tendono i popolari italiani ed europei.
"Se su una strada conosciuta, un conduttore di carretto si sposta al passo, di notte, gli basterà una modesta lanterna per illuminare il cammino. Al contrario una automobile che percorre a grande velocità una regione sconosciuta dovrà essere munita di fari potenti".
I fari potenti, le guide, i grandi obiettivi.
Conosciamo i limiti di credibilità che accompagnano i programmi e le parole in genere dei partiti; le forze politiche sono giudicate per i programmi realizzati, i programmi trasformati in fatti: "i programmi si vivono" ci dice ancora Sturzo.

Le strade parallele del paese e dello Stato
Impressiona nel dibattito di queste ultime settimane attorno ai grandi cambiamenti che investono l’Italia e l’Europa, una apparente e credo non sempre voluta incomunicabilità fra istituzioni e società.
Il governo (non solo i partiti) si sforza di ascoltare ma fatica a farsi ascoltare. Il governo sta facendo, sta lavorando, sta realizzando obiettivi programmatici importanti. Eppure pare che tutto venga assorbito senza reazioni, o venga coperto da una diffusa disattenzione.
C’è il problema della criminalità e il governo approva un pacchetto di provvedimenti seri e forti: disattenzione o critiche.
Dopo dieci anni viene bandito il megaconcorso per la scuola: anche qui prevalgono o si fanno ascoltare prevalentemente le critiche.
Finalmente si dà concretezza ai contenuti del Patto sociale, comincia una stagione di consistenti sgravi fiscali, si estende la super Dit anche ai piccoli operatori, ha inizio la grande erogazione di incentivi per decine di migliaia di miliardi, vengono decretati patti territoriali e contratti d’area, vengono cioè create condizioni per gli investimenti come da anni non si verificava, eppure gli imprenditori che pure ottengono ciò che chiedono (li abbiamo sentiti la settimana scorsa a Modena), non partono, non investono, non intraprendono.
Perché? Cos’altro occorre?
Io credo che dietro questa preoccupante caduta della voglia di intraprendere ci siano molte ragioni., la più importante delle quali ha a che fare con una nostra responsabilità, intendo della politica.
La politica, quando c’è, solo perché c’è, trasmette sicurezza: la stabilità del sistema e dei gruppi dirigenti; l’unitarietà di fondo di tutto il sistema (penso al miracolo della Spagna dove governo e opposizione perseguono unitariamente a Madrid e a Bruxelles l’interesse nazionale, e così hanno creato le condizioni per un milione di nuovi posti di lavoro negli ultimi tre anni), la sua capacità di aggregarsi per poter aggregare.
E invece da noi no. La cronaca degli ultimi mesi e, in particolare, delle ultime settimane, è cronaca di ulteriore disgregazione.
Un classe politica concentrata sul proprio ombelico fatica a farsi seguire dal paese.
Non siamo purtroppo ancora riusciti a ricomporre ciò che si è spezzato fra società e Stato da alcuni anni.
Per questo la politica torna oggi ad essere evocata nel conscio e più spesso nell’inconscio collettivo quale presupposto fondamentale per lo sviluppo e (per quanto riguarda il nostro discorso) per la credibilità dei programmi, persino dei programmi che si stanno portando ad attuazione.
Mi è capitato di incontrare recentemente operatori di diversi settori e diverse dimensioni e sentirli riconoscere le cose buone realizzate dal governo: l’ingresso nell’Unione monetaria, la bassa inflazione, il credito finalmente accessibile, persino i primi effetti di una politica fiscale non più penalizzante. Però ...
Però: 750 leggi con annesse responsabilità penali nel settore dell’ambiente, un calvario di procedure e vincoli inapplicabili, 15 enti di controllo e dunque 15 diversi controlli nel settore della sicurezza sul lavoro, 292 voci di imposta, tasse, concessioni, scadenze ed accise....
Un editorialista solitamente acuto ha recentemente osservato che la vera rivoluzione italiana avrà luogo quando destra e sinistra metteranno al centro delle loro aspirazioni - sia pure con approcci diversi - il tema della libertà dell’individuo: la libertà di intraprendere, di rischiare, di pagare se sbaglia ma non di essere sottoposto a continui pedaggi di accesso, di non trovarsi di fronte, a ogni passo, uno Stato a un tempo impotente e ostile.
Concludendo: l’interminabile transizione, l’instabilità, la progressiva frammentazione delle forze politiche, la perdita di solidi riferimenti programmatici, il dominio paralizzante della mentalità statalista di una Burocrazia che sempre più spesso si considera come nuova "classe politica", sono tutti fattori che disorientano i soggetti, li spingono a restare "liquidi" e a non impegnarsi in progetti consistenti e a lungo termine, rendendo meno efficaci gli stessi provvedimenti del governo. Insomma, è la "debolezza della politica come fonte di identità e di fiducia, prima ancora che di politiche, che pesa, e può spiegare meglio la peculiarità dello sviluppo più lento dell’Italia in Europa".

Diventa allora prioritario e necessario per il PPI e per tutti i partiti della coalizione del centro sinistra concentrarsi nei prossimi mesi sugli obiettivi della stabilità politica da un lato e della ricostruzione burocratica dello Stato dall’altro, quali premesse per ogni azione finalizzata a superare il dannoso parallelismo fra il cammino del paese e il cammino delle istituzioni e, dunque, quale condizione capace di preparare una seria competizione programmatica tra le forze politiche.

Il PPI propone due grandi obiettivi:
completare il disegno europeo
e ricostruire nel paese la fiducia in sé e nel proprio futuro

Abbiamo già detto che in questa sede non ci interessa esporre un programma di dettaglio. Una forza politica non può evidentemente sottrarsi ad alcun problema, ad alcuna responsabilità. Sappiamo che per la gran parte dei cittadini le priorità da affrontare sono la disoccupazione, la sicurezza urbana, il futuro del sistema pensionistico, il sistema formativo. E queste sono priorità anche per noi.

E, peraltro, per tornare alla metafora dei "fari potenti" necessari a penetrare il buio della notte, a noi pare opportuno indicare oggi, a noi stessi e al paese, due grandi obiettivi, riassuntivi di mille altri, utilizzando anche diverse suggestioni contenute nelle due ultime "Letture" de "Il Mulino" svolte da Tommaso Padoa Schioppa e Massimo Livi Bacci : il completamento dell’Europa (noi sentiamo più di tutti questa responsabilità, come partito erede della primitiva e mai indebolita cultura europeista) e la ricostruzione del tessuto sociale e morale del paese, oggi purtroppo liso e frammentato (di nuovo, noi sentiamo più di tutti questa responsabilità, in quanto partito erede della grande tradizione politica, unitiva ed etica, rappresentata dal cattolicesimo democratico).

PRIMA PARTE
L’EUROPA "INCOMPIUTA"

Quanto è avvenuto negli ultimi tre giorni descrive drammaticamente le prospettive ma ancor più i limiti del cammino dell’Europa.
Nel Consiglio europeo di Berlino i capi dei 15 governi hanno designato Romano Prodi alla guida della Commissione europea per i prossimi cinque anni ed hanno finalmente approvato l’ "Agenda 2000", cioè il programma di allargamento a est e a sud dei confini dell’Europa. Sono occorsi dieci anni, dopo la caduta dei regimi comunisti, per avviare lentamente e faticosamente la dilatazione verso il centro dell’Europa geografica il perimetro di quella politica. Ma non si è ancora riusciti a dare a questa ultima gli strumenti istituzionali, cioè di governo, adeguati alla sua responsabilità politica.
Al punto che la contemporanea e drammatica esplosione della crisi del Kossovo, cioè in uno dei gomitoli nazionalistici più aggrovigliati, esasperati e irrisolti di quella che a dieci anni dal 1989 continuiamo a indicare come l’ "altra Europa", descrive e denuncia la tragica impotenza di una Unione europea capace di fondere insieme undici monete e tantissimi interessi, ma non di esercitare una influenza pacificatrice neppure a poche centinaia di chilometri fuori dei propri confini.
Da qui l’urgenza, moralmente e politicamente non più dilazionabile, di completare la costruzione dell’Europa politica.

L’esigenza di un completamento della costruzione europea evoca anche l’incompiutezza e la inadeguatezza della costruzione già compiuta. Potrebbe sembrare una provocazione. Cui si può rispondere ricordando l’ultima "Lettura" del Mulino, tenuta da Tommaso Padoa Schioppa, il quale parla di avventura europea, da cui ci viene un insegnamento costituito tanto dai successi quanto dalle incompiutezze dell’opera intrapresa. L’incompiutezza rende precario il già costruito, ma il già costruito è opera tanto grande che rischia di farci dimenticare l’incompiutezza<! NEL >. Un rischio vissuto con drammatica intensità: "Nel 1914 – sono le parole conclusive della "Lettura"- l’Europa aveva alle spalle cent’anni di pace quasi ininterrotta, pareva unita; si circolava senza passaporto e il regime aureo dava una unione monetaria. Le persone della mia età pensavano, in quell’anno, che l’era delle guerre fosse finita, come lo pensano già oggi tanti trentenni. Chi ha visto, anche se da bambino piccolo, le case sventrate dai bombardamenti e i soldati tedeschi o americani nelle strade o nelle case sa che non è così. L’Unione europea è opera incompiuta. E il rischio più grande che essa corre è che le giovani generazioni non se ne rendano conto. Occorre allora che nel mostrare ai giovani di oggi la lunga strada percorsa in 50 anni si indichi l’incompiutezza dell’opera e ciò che a loro resta da fare. Perché essi non abbiano un amaro risveglio in un nuovo 1914".
A cui si potrebbe aggiungere l’altra incomputezza, quella della "civiltà europea", a cui ha fatto recentemente riferimento il premio nobel Elie Wiesel: "Se nel 1945, alla fine delle guerra, qualcuno mi avesse detto che per il resto della mia vita avrei dovuto battermi ancora contro il razzismo, non lo avrei creduto .... Come non avrei mai immaginato di dover combattere per la sopravvivenza dei bambini nel mondo, per non lasciarli morire di fame, di malattia, di umiliazione, di schiavitù. Mai avrei creduto questo. Il non amore per i bambini per me era morto ad Auschwitz, in quella immagine dei vagoni carichi di questi piccoli innocenti che non potrò mai dimenticare.... Penso che questo sia dovuto forse alla qualità della nostra testimonianza verso le nuove generazioni .... L’educazione è un’operazione che supera spesso i nostri limiti, perché ci obbliga ad una coerenza esterna con la testimonianza della vita; ma è quanto di più urgente ci sia oggi da fare ed è la sola via per rendere impossibile il riprodursi dell’orrore".

Le nuove istituzioni del governo politico dell’Europa
Compito primario, dunque, è il completamento della costruzione europea, procedendo in direzione della modifica della costituzione europea, il cui oggetto è soprattutto economico, mentre la natura, il significato, l’impulso sono sempre stati e sono politici, poiché intendono trasformare potere, sicurezza, istituzioni, Stati.
Gli stessi Trattati istitutivi –in particolare quello Cee – hanno del resto valorizzato anche la dimensione morale, sociale e politica della costruzione europea, della nuova Europa. Nel Preambolo del Trattato Cee, infatti, viene indicata la progressiva integrazione degli Stati membri in un’organizzazione politica che potesse seguire alla realizzazione dell’integrazione economica: gli Stati firmatari si dichiarano "determinati a porre le fondamenta di una unione sempre più stretta fra i popoli europei" nonché "ad assicurare mediante un’azione comune il progresso economico e sociale dei loro Paesi, eliminando le barriere che dividono l’Europa".
Si deve aggiungere, precisando, che, nell'alternativa tra modello intergovernativo e modello sovrannazionale, gli estensori dei trattati europei - da Parigi (1950) ad Amsterdam (1997) - hanno compiuto una scelta apparentemente ibrida, e quindi di compromesso, reso necessario dal fatto che senza una forte componente confederativa il campo europeista sarebbe stato perdente. Questo compromesso si è dimostrato vitale e ha permesso di avanzare molto lungo la linea alta del crinale, sicché molti dei caratteri intergovernativi della costituzione europea sono caratteri permanenti, non aspetti della transizione. Il potere comunitario integra, modifica e completa il potere degli Stati e non lo sopprime. Riprendendo le fila del discorso interrotto, non bisogna peraltro perdere di vista il fatto che l’Europa si è fatta realtà sul terreno economico. Pochi dati danno la misura del successo europeo. L’Europa povera e distrutta nel 1950 ha oggi colmato gran parte del ritardo che aveva rispetto agli Stati Uniti. Il fondamento di questo successo è il Trattato dsi Roma: testo di cui non si cessa di riscoprirne l’intelligenza economica, la completezza, la modernità di visione.
In ordine al rapporto governo-mercato, l’Unione europea non ha, peraltro, instaurato tra i Paesi membri una semplice zona di libero scambio o ancor meno uno spazio senza leggi e senza poteri. Ha invece realizzato, attraverso un unico processo, sia la reciproca apertura delle economie partecipanti, sia l’infrastruttura pubblicistica delle leggi e dei poteri necessaria al buon funzionamento del nuovo mercato che veniva creando.
Proprio per realizzare la libertà economica tra più Paesi, il legislatore comunitario ha alleggerito, sfrondato, volto al mercato e alla concorrenza, la legislazione e le istituzioni economiche degli Stati membri, con una forza e una coerenza che i processi politici interni agli Stati non avrebbero saputo sprigionare. La costruzione europea ha significato ad un tempo più mercato e più governo.
Tutto ciò riconosciuto, si deve tuttavia convenire che l’Unione europea non solo non è compiuta, ma la costruzione già compiuta probabilmente è ancora al di qua del punto di non ritorno. Non è compiuta sul piano dell’assetto costituzionale, perché l’Unione europea, che pure è un sistema costituzionale completo di tutti i suoi organi ( un esecutivo, un Parlamento eletto, una " Camera degli Stati", una Corte di giustizia), ancora non applica con pienezza i principi fondamentali che sono il patrimonio della civiltà politica occidentale: la decisione a maggioranza, l’ancoraggio al voto popolare dell’esecutivo e del legislativo, l’equilibrio dei poteri. Non è compiuta inoltre sul piano delle competenze, perché all’Unione manca ancora la più fondamentale funzione di governo: dare ai cittadini la sicurezza interna ed esterna.
Una completa legittimazione democratica è oramai condizione essenziale perché l’Europa possa progredire. Non si potrà più ritenere ammissibile che nell’Unione si possa legiferare contro la volontà del Parlamento; o che una minoranza, anche il più piccolo Stato membro, possa impedire, con il suo voto, decisioni pur rispettose dei suoi diritti fondamentali. Oggi cresce il rischio che questo deficit democratico dell’ordinamento dell’Unione venga usato dagli Stati quale argomento per negare all’Unione le competenze che ancora le mancano.
La stessa crisi, aperta in questi giorni, della Commissione europea, al di là delle ragioni specifiche che l’hanno determinata, descrive l’impossibilità a fare funzionare l’Unione con queste istituzioni e con queste inadeguate relazioni tra le istituzioni.
Per molti anni il progredire dell’Europa è stato favorito da una sorta di dispotismo illuminato e da un sistema di democrazia limitata – espressioni nelle quali Padoa Schioppa intende comprendere procedure pienamente legittime, ma ancorate al metodo democratico solo dal vigere della democrazia entro gli Stati -, in virtù dei quali erano (e sono) possibili decisioni più audaci, più rapide, spesso meno inceppate dagli elementi ordinari della politica (il filtro dei partiti, lo scambio politico), e che, per ciò stesso, giustificavano, forse, un’incompiutezza costituzionale. La quale peraltro non esclude che l’Europa si è formata nella piena legittimità istituzionale, anche a non considerare che il disegno di unire politicamente l’Europa è nata dalla caduta dei regimi totalitari dell’occidente europeo e si è rafforzata per la minaccia di quelli comunisti. Fondata quando una modesta porzione del globo era retta da governi liberamente eletti, la Comunità è diventata un’area democratica in espansione, che si allarga con l’allargarsi dello spazio della democrazia.
Ma oggi sia l’incompiutezza costituzionale sia il deficit democratico non sono più possibili. Occorre l’applicazione piena del voto a maggioranza; occorre l’estensione della codecisione del Parlamento eletto a tutta la produzione legislativa; occorre introdurre una gerarchia delle norme che separi le leggi dagli atti normativi minori come condizione per estendere la codecisione. Inoltre, l’Unione dovrà acquisire ed esercitare poteri incisivi in materia di sicurezza interna ed esterna: va anticipata nel tempo l’attuazione degli obiettivi indicati nel Trattato di Amsterdam, della armonizzazione e - io direi - unificazione delle politiche di immigrazione e di asilo, e della Pesc, cioè della Politica estera e di sicurezza comune: dopo quella della Bosnia e dell’Albania, oggi anche il dramma del Kossovo ci sollecita l’ineludibile urgenza di dotare l’Europa di strumenti diplomatici e militari che le consentano di gestire una sua irrinunciabile
responsabilità morale e politica.
La politica trae un grande insegnamento dalla storia europea degli ultimi cinquant’anni in cui si è venuto compiendo il processo di integrazione europea.
Il primo e capitale insegnamento è la dimostrazione ricevuta che la società umana può, con mezzi pacifici, passare dallo stato di natura alla civiltà anche nel campo dei rapporti tra Stati sovrani, nel quale un tale passaggio non era ancora riuscito.
La creazione di poteri sovranazionali in questa parte del mondo – l’Europa - dove lo Stato nazionale era nato è stato il vero evento rivoluzionario di questo secolo dominato dall’idea di rivoluzione: di una rivoluzione nazionale (di popolo o addirittura di razza), caduta a metà del secolo; di una rivoluzione sociale e di classe caduta solo pochi anni fa.
E’ apparso via via più chiaro che, allo stesso modo che entro i Paesi, così anche tra i Paesi l’ordine e la pace possono essere instaurati solo da un potere superiore ai Paesi capace di prendere e imporre decisioni, deliberando a maggioranza e, se necessario, usando la forza. Mentre a una a una erano cadute le speranze suscitate dalle diverse formule escogitate negli ultimi due secoli per instaurare la pace e l’ordine internazionale: la questione nazionale nell’Ottocento –ossia il far coincidere Stato e nazioni -; la questione sociale nel Novecento, con l’avvento di una società senza classi, o anche solo attuando la solidarietà internazionale tra le classi oppresse; le regole: i 14 punti di Wilson, la carte dell’Onu.
Per instaurare tra gli Stati l’impero della legge, occorre dunque creare istituzioni comuni a essi superiori a cui affidare compiti comuni che, nella storia dell’Europa moderna, sono stati prerogativa dello Stato nazionale: la sicurezza interna ed esterna, la tutela delle libertà fondamentali, la politica internazionale, oltre che la moneta, prima recente conquista di questa seconda fase costruttiva.
Il Trattato firmato a Roma il 25 marzo 1957 costituisce il passaggio decisivo verso un organico potere sovranazionale. Esso non era un semplice accordo internazionale per la libertà degli scambi, ma il nucleo della Costituzione dell’Unione europea, scritta nelle forme classiche di un testo pattizio tra governi, sottoposto alle ratifiche dei Parlamenti, ma Costituzione nella sostanza, perché trasforma tutto il nostro ordinamento economico e giuridico, e integra i testi costituzionali degli Stati membri.

Il federalismo: la divisione verticale del potere
Punto delicato e centrale della costruzione europea è il federalismo. Termine ambiguo, il federalismo, col quale si può alludere a soluzioni opposte o, meglio, si può alludere anche a una soluzione opposta a quella che noi Italiani intendiamo. Il concetto di federalismo, in quella prima soluzione, non si ispira all’intento di limitare l’accentramento sovranazionale del potere, bensì a quello opposto di estendere il potere sovraordinato agli Stati.
Al pensiero federalista, inteso nel primo senso, risalgono in particolare due principi, che hanno aperto nuove strade all’evoluzione istituzionale italiana.
Il primo di essi è la necessità di una divisione del potere in un duplice senso: in senso orizzontale (tra potere legislativo, esecutivo, giudiziario), ma anche in senso verticale (tra livello nazionale, sub-nazionale, sovranazionale). Solo così viene superata la concezione del potere come monolite, nata nei grandi Stati monarchici europei. Solo in un sistema federale, che attui una tale divisione del potere, l’elemento potenzialmente totalitario del potere stesso trova un pieno antidoto.
Il secondo principio è la sussidiarietà: ogni livello di governo deve limitarsi alle funzioni che non possono essere adeguatamente svolte ai livelli più bassi. Un principio potente, in parte coincidente con quello della divisione, ma da non confondere con questo, che garantisce una guida razionale alla scelta di dove collocare il potere, evitandone eccessi o carenze.
Il principio di sussidiarietà può essere inteso in due accezioni: secondo la prima accezione (sussidiarietà orizzontale) esso richiede che lo Stato intervenga solo laddove i privati e le formazioni sociali non siano in grado di raggiungere un determinato obiettivo. Al principio di sussidiarietà orizzontale si ispira l’art. 2 della Costituzione, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (la famiglia, la scuola, ecc.). Secondo l’altra accezione (sussidiarietà verticale) l’intervento pubblico deve essere affidato anzitutto al livello di governo più vicino al cittadino e solo in via sussidiaria a livello di governo superiore. Questa è l’accezione incorporata nel Trattato di Maastricht, il cui art. 3B, paragrafo 2, è così formulato: "Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi della misura prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni e degli effetti dell’azione, essere realizzati meglio a livello comunitario". Benché un’analoga enunciazione non sia stata introdotta negli altri due Trattati, la stessa esigenza si pone con evidenza in tutti i campi del diritto comunitario e, quindi, il principio di sussidiarietà assume (deve assumere) una valenza generale.
Il principio così enunciato non può avere il significato di modificare i rapporti fra Stato centrale o federale o regionale e Stati federati o Regioni all’interno degli Stati membri, dato che esso concerne (ed è opportuno che continui a riguardare) soltanto i rapporti tra l’Unione e gli Stati membri, considerati in modo unitario, a prescindere dalle loro divisioni interne.
Il principio di sussidiarietà deve conservare il suo carattere di verticalità ascendente, evitando che s’inverta nella tendenza ad estendere la competenza del livello superiore e, nella specie, del livello comunitario: invece di partire dal basso si parte dall’alto. Insomma, nel principio di sussidiarietà verticale c’è anche il germe, da ostacolare, di un suo sviluppo in senso centralista, secondo l’esperienza federalista della Germania, dove, peraltro, questa possibilità è temperata dall’esistenza di una seconda Camera (Bundesrat) formata da rappresentanti dei governi locali.
Nell’ordinamento comunitario il principio di sussidiarietà sempre più deve assumere un significato diverso, del resto consono alla formulazione sancita nel Trattato quale limite alla normativa comunitaria, nonché alla esistenza del diverso, ma funzionalmente analogo principio di proporzionalità, sancito per le materie che sono di competenza esclusiva della Comunità, ma è applicabile a tutta la normativa comunitaria, in forza del quale "L’azione della Comunità non va al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del presente Trattato" (art. 3B, paragrafo 3).
Una attenta riflessione merita la considerazione che non esiste alcun meccanismo giudiziario preventivo volto ad accertare il rispetto del principio e che tale accertamento presenta aspetti che attengono ad elementi di ordine politico.

L’Unione e gli Stati nazionali
Il tema del federalismo col principio di sussidiarietà correlata rimanda al rapporto tra l’Europa e i singoli Paesi. L'appartenenza a un Paese è parte integrante della concordia discors che fa avanzare l'Europa.
Innanzi tutto è il sistema istituzionale stesso della Comunità che assegna una funzione essenziale agli Stati, come si è già ricordato richiamando i Trattati istitutivi.
La funzione degli Stati è necessaria. L'Unione Europea chiede che ogni Paese partecipi alla politica comune in quanto tale, non solo attraverso il voto dei suoi elettori. Essa tratta coi Paesi. Ogni Paese ha obblighi e diritti in quanto soggetto istituzionale.
Ma i Paesi fanno l'Europa anche facendosi concorrenza: basti pensare al riconoscimento reciproco delle norme nazionali, la geniale invenzione che ha realizzato il mercato unico attraverso un meccanismo che è esso stesso di mercato.
E anche quando la concorrenza non è prevista e nasce dalla volontà di prevalere, l'antica volontà di potenza che ha animato gli Stati nazionali per tanto tempo, anche allora, purché non violi le regole dei Trattati, essa è lecita, e addirittura utile: allo stesso modo in cui è utile, in un sistema politico, la lotta tra i partiti se rispetta le regole della democrazia (e le leggi amministrative e penali). Il protezionismo non è consentito, ma il patriottismo sì.
Questo va detto senza perdere di vista il significato rivoluzionario del passaggio dalla cooperazione precaria e sempre reversibile dei trattati internazionali a quella istituzionalizzata in poteri sovrannazionali. Senza trascurare che fare l'Europa unita significa liberare lo Stato nazionale dai rischi sempre latenti nella concentrazione di tutta la sovranità in un solo soggetto, rompere una concentrazione esclusiva, che aiuta la costruzione europea ad esaltare il ruolo benigno dello Stato nazionale, restituendogli il valore positivo di tradizione storica e culturale –come ancora una volta ricorda Padoa Schioppa – e – ci si può permettere di aggiungere – favorisce, insieme, la spinta fortissima verso l’esaltazione di articolazioni regionali all’interno degli Stati esistenti e verso un’accentuazione della costruzione di una reale struttura federale dell’Unione europea.
Gli Stati-nazione hanno dato a uomini e donne, entro il loro spazio, gli stessi beni che l'Unione Europea sta cercando di dare entro il suo spazio: pace, sicurezza, regno della legge, senso di comune appartenenza,
Non a tutti è evidente il contributo che l'Italia ha dato al farsi dell'Europa. Nella combinazione di modello intergovernativo e modello sovrannazionale, il presidio della componente sovrannazionale, delle due quella veramente innovativa e sempre la più minacciata, si deve soprattutto all'Italia.
Per molti aspetti, l'Italia è il Paese federatore dell'Europa. E lo è non solo per l'impegno e per l'abilità con cui hanno operato in questo campo gli uomini di governo, di partiti e generazioni diverse, ma anche perché essa dà all'Europa due apporti che mancano ad altre nazioni: la sua profonda tradizione di universalismo; il suo essere storicamente ancora in divenire.
L'identità italiana è storicamente "in divenire". Non è difficile ricordare quanto differenti fossero fra loro gli italiani all'epoca dell'unificazione ed ancora all'inizio del dopoguerra, e quanto differenti essi siano rimasti, senza che l'unità del Paese sia stata seriamente minacciata. L’Italia offre all'Europa l'esempio di un popolo la cui identità è sempre in costruzione.
Si sente dire, a volte, che proprio il consenso per l'Europa prova che il nostro Paese ha difficoltà a individuare il proprio interesse nazionale. Forse è vero il contrario: l'interesse nazionale italiano è fortemente radicato in Europa.
La nazione è un fatto di cultura, lo Stato un fatto di potere. Rompendo la coincidenza esclusiva tra Stato e nazione la costituzione europea segna un passaggio – di cui merita soffermarsi su due aspetti - nella storia della cultura, oltre che in quella del potere.
Il primo aspetto riguarda quella che potremmo chiamare la "molteplicità delle appartenenze" di ogni persona. Rompendo il legame esclusivo tra Stato e nazione la costituzione europea ci ha aiutato a capire come le società a cui noi apparteniamo siano molteplici: la città, la regione, la nazione, l'Europa, il mondo. Ognuna di esse ha una propria storia ed è una matrice di cultura; a ognuna di esse apparteniamo, traendone alimento e doveri.
E' proprio questa molteplicità di appartenenze, culturali oltre che civili, che arricchisce la nostra vita e ci rende nello stesso tempo liberi. Una società non può essere aperta nella sfera della politica se non lo è in quella della cultura. Nessuna cultura è degna di questo nome se è chiusa.
Il secondo aspetto riguarda le connessioni e le distinzioni tra sfera della politica e sfera della cultura. Soprattutto nel nostro secolo lo Stato, da poco divenuto laico, si è dato un proprio credo - di nazionalità, di razza, di classe - e ne ha fatto la base di totalitarismi dediti all'oppressione interna e all'aggressione esterna. L'unificazione europea è stata concepita da De Gasperi in primo luogo anche per allontanarci da quei totalitarismi. Più di quella americana, essa è nata nel presupposto di una pluralità delle culture, innanzi tutto delle lingue, che di ogni cultura sono l'espressione più ricca e diffusa. E' perciò esperienza e salvaguardia di una separazione tra politica e cultura che lo Stato nazionale non aveva saputo compiutamente realizzare.

Il federalismo nella riforma costituzionale italiana
Per quanto concerne l’ordinamento italiano, in cui – a proposito di principio di sussidiarietà e sua attuazione - si è svolto un ricco dibattito in sede di Bicamerale e di approvazione della legge Bassanini 1, del decreto legislativo di attuazione n. 112 del 1998 e delle relative leggi regionali di attuazione, è sufficiente soffermarsi su due osservazioni: una attinente l’indirizzo decisamente centralista assunto da alcuni leggi regionali di attuazione, indirizzo col quale non si può concordare; l’altra relativa all’iniziativa del governo – che giudichiamo positivamente - di riaprire la pagina della riforma costituzionale sulla forma di stato.
Al riguardo vanno però confermati il giudizio e le motivazioni già espresse dal nostro Cerulli Irelli, secondo cui, anche rispetto al testo parziale discusso e approvato dalla Camera dei deputati, la proposta risulta poco attenta alla filosofia della sussidiarietà, non tanto perché si è ritenuto di non richiamarla come principio, stimato dalla relazione illustrativa tra quelli fondamentali da inserire nella prima parte della Costituzione, quanto perché l’epicentro del disegno di legge costituzionale si innerva sul momento regionale, assunto come volano (assieme allo Stato centrale) principale di tutti i meccanismi di riarticolazione dell’ordinamento istituzionale e amministrativo, mettendo eccessivamente in ombra il primato delle comunità locali, che sono la prima sede della convivenza civile, dove il riferimento territoriale e l’identità comunitaria e sociale fonda il suo insopprimibile radicamento. Continuando a prendere in prestito le parole di Cerulli Irelli, gli stessi teorici della globalizzazione e, come si dice con una immagine suggestiva, del villaggio globale, non negano il bisogno di questo ancoraggio. Esso quindi permette di posare un disegno ricostruttivo del patto costituzionale su un diffuso sentire umano dei processi della socializzazione e dello stare insieme agli altri. Le identità collettive non sono un’astrazione intellettualistica, ma rispondono a vocazioni profonde, non espunte dalla società dei consumi né dal "pensiero unico".
Di qui la necessità di una ricaratura del progetto che, secondo la nostra visione della società postindustriale e delle risposte di democrazia da dare ai suoi problemi, deve riportare a priorità il valore ( e perciò il peso costituzionale) delle comunità locali.
Ciò non significa riaccendere una impropria conflittualità tra le "corporazioni" delle Regioni, dei Comuni, delle Province e delle Comunità montane per portare la tensione del braccio di ferro del potere in una direzione o in quella opposta; ciò sarebbe tutt’altra faccenda.
La questione va affrontata e risolta partendo dalle considerazioni che danno risalto alle principali finalità da assegnare alla riforma e risiedono nel ristabilimento di una identificazione popolare con le primarie istituzioni di riferimento. E queste sono i comuni, anche di minore dimensione, e via via le altre aggregazioni istituzionali e amministrative come le associazioni intercomunali, le comunità montane, le province.
Il riconoscimento di tale presupposto dell’autonomia locale, che procede sempre dalla comunità più prossima al vivere associato, non comporta alcuna riduzione dell’importanza dei momenti delle decisioni legislative, politiche, programmatorie di scala più vasta, che debbono venire incentrate sulla scala regionale.
Ciò che conta è la congruenza delle soluzioni ordinamentali, anzitutto di livello costituzionale, e quindi il rispetto senza riserve delle prerogative dell’autonomia locale.
Spazi certi ed ampi vanno riconosciuti e garantiti, in primo luogo, all’autonomia dei comuni e delle province ( e alle libere associazioni intercomunali e comunità montane), di espressione delle loro preferenze politiche, sociali ed economiche.
Di qui la garanzia –già scritta nell’attuale articolo 128 della Costituzione ma non sempre osservata nella realtà, dalla quale non si deve arretrare- di una autonomia delle comunità locali che possa spaziare in un "ambito" largo, che può essere soltanto quello dei principi fissati da leggi generali dello Stato (oltre che dalla costituzione).
Viceversa imboccare la strada della legislazione regionale (magari pensata nella sua effettività in termini di dettaglio) di ordinamento locale- come vediamo nell’esperienza di alcune Regioni a statuto speciale– significa inevitabilmente comprimere le dimensioni dell’autonomia dei comuni e delle province e delle loro aggregazioni.
In parallelo ne deriva una difficilmente resistibile accentuazione del carattere gestionale e piccolo amministrativo delle Regioni; carattere esecutivo e amministrativistico che, a nostro avviso, le Regioni sarebbero pericolosamente sospinte a marcare attraverso l’ipotesi, da non forzare nel testo costituzionale, dell’elezione diretta del Presidente della giunta regionale.
Vistoso restringimento dell’autonomia locale è segnato dalla soppressione della "storica" prerogativa degli enti locali territoriali –introdotta dall’antica legislazione post-unitaria e mantenuta anche nell’epoca fascista, lucidamente confermata dalla legge 142 e, da ultimo, dalla legge Bassanini 1- della potestà regolamentare. L’ipotesi Amato la relega ad una sorta di cadeau che, di volta in volta, la legge statale o quella regionale potrebbe conferire ai Comuni e alle Province, al di fuori di argini costituzionali e quindi da operare sostanzialmente ad libitum.
La stessa cancellazione del principio costituzionale della "normalità" dell’esercizio delegato delle funzioni amministrative –l’art.118 viene soppresso tout court, anche se esso certamente deve essere aggiornato in specie alla luce della legge 59 (Bassanini 1)- non trova un’alternativa convincente. La riserva di legge statale solo per le funzioni fondamentali degli enti locali e la riformulazione dell’art.128 consegna, in pratica, alla discrezionalità della legislazione delle Regioni l’attribuzione delle funzioni ai Comuni; questa viene affermata come principio generale, anche se la legge regionale può disporre "diversamente" (e quindi trattenere le funzioni alla Regione o conferirle alle Province, alle città metropolitane o al altri soggetti) con l’unico limite –finalità, invero, non molto stringente- di "assicurarne l’esercizio unitario".

La riapertura, da parte del governo, della pagina della riforma costituzionale, che giudichiamo fatto importante e positivo, deve stimolare la nostra riflessione su alcune questioni essenziali o, per meglio dire, sulla nostra ispirazione fondamentale.
La nostra determinazione a conservare l’indicazione di una democrazia reale, sostanziale, non nominalistica - che voglia innanzi tutto cercare di mobilitare le energie profonde del popolo e indirizzarle in modo consapevole verso uno sviluppo democratico sostanziale e non abbandonarle a una deriva plebiscitaria o a una seduzione bonapartista, ai cui rischi ci richiama quotidianamente l’amico Guido Bodrato – deve essere forte e decisa. Questa appena enunciata è una indicazione messa in crisi da una degenerazione, rispetto al DNA della Costituzione, di soggetti politici in crisi di motivazione culturale e progettualità politica e da una emersione, nel "pensiero unico", del singolo o dell’individuo - frutto a sua volta del rapido processo di secolarizzazione in atto.
La riforma costituzionale e istituzionale di cui il Paese ha bisogno deve perciò essere ampia, profonda, coraggiosa, radicalmente innovativa, ma per essere tale deve porsi in uno spirito di continuità e di fedeltà con i "principi fondamentali" della Costituzione vigente.
Il destino di questo Paese è nella ricucitura del rapporto tra politica ed etica, nella capacità della politica di riacquistare fiducia, e di meritarsela, di esprimere un’alta progettualità, di affermarsi come una delle più elevate attività dell’uomo nella società.
Volendo tradurre in un valore fondamentale ed essenziale le considerazioni prima svolte sul principio di sussidiarietà nel progetto Amato, si deve sottolineare come la Costituzione, ponendo in primo piano i principi di autonomia e di indipendenza dello Stato, allo stesso modo di una qualunque comunità politica, attua in una certa misura il superamento dello Stato nazionale ottocentesco, o quanto meno di una sua forma basata sul principio di sovranità. Si può e si deve insistere perché lo Stato svolga regolarmente le sue funzioni, ma non si può immaginare che esso imponga la sua sovranità sull’uomo, perché, dell’uomo, lo Stato e le sue istituzioni devono essere solo strumento di servizio. Lo Stato è una parte del corpo e della società politica, è una parte specializzata degli interessi del tutto. La nostra Costituzione anticipa e anzi ha reso possibile la trasformazione oggi in atto, introducendo il principio secondo cui "La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione" e proclamando nell’articolo 5 che la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali. Le autonomie locali, prima che enti, sono comunità, organizzate a livello di comuni e a livello più ampio, provinciale, in cui si esprime la personalità dell’uomo e, in quanto tali, lo Stato le riconosce e deve promuoverle. Ciò corrisponde anche al principio di sussidiarietà.
L’affermazione dell’autonomia implica essenzialmente il riconoscimento a Comuni e a Province di potestà pubbliche nel perseguimento di finalità e di interessi propri delle collettività corrispondenti, secondo un proprio indirizzo politico-amministrativo, distinto e relativamente indipendente da quello statale e da quello regionale.
Collocandosi in quest’ordine di idee, la Carta europea dell’autonomia, la cui ratifica ed esecuzione è stata disposta in Italia con la legge 30 dicembre 1989, n. 439, ha inteso definire l’autonomia locale come "il diritto e la capacità effettiva, per le collettività locali, di disciplinare e gestire, nell’ambito della legge, sotto propria responsabilità ed a favore delle proprie popolazioni, una parte importante delle funzioni pubbliche".
Noi auspichiamo quindi un federalismo in cui forme di autogoverno, da parte di comunità, di gruppi, di organismi, possano trovare uno sviluppo fino ad oggi non conosciuto, che abbia come fine una diffusa autonomia, basata sulla solidarietà, che è l’esatto opposto di ogni chiusura autarchica, localistica e municipalistica, che, in fondo, è assolutamente centralistica e si alimenta basandosi su un deficit di rappresentatività democratica.

Riconfermiamo la nostra adesione e fedeltà ai supremi valori della Costituzione vigente, a quei valori che Dossetti definiva non solo civilmente vitali ma anche inderogabili per i cristiani. Le Costituzioni sono organismi viventi. Si è detto autorevolmente che è un non senso dire, come si dice, che una Costituzione deve essere rifatta perché i tempi sono cambiati, perché lo scopo di una Costituzione è proprio quella di sopravvivere al cambiamento dei tempi, per assicurare la continuità politica nel susseguirsi delle generazioni. Ad una Costituzione, pertanto, bisogna far sempre esprimere il massimo delle sue potenzialità e non bisogna contrabbandare un deficit di ciò che Habermas chiama amore costituzionale per insufficienza della Costituzione. Dobbiamo seriamente riflettere su questo deficit, che ci fa correre il rischio di trasformare le riforme in prodotti freddi e inanimati di ingegneria costituzionale, che ci farebbero rimanere fermi al palo e alimenterebbero una crescente delegittimazione.

Confermiamo la nostra fiducia in un sistema costituzionale che fondi il concetto di democrazia su tre cardini: i cittadini, i partiti e le istituzioni. Non c'è democrazia senza diritti e doveri dì cittadinanza; senza soggetti –parti- portatori di diverse visioni del "bene della patria"; senza istituzioni rappresentative in un sistema bilanciato di poteri, e non unificate e annullate nella figura di un capo carismatico. Il riconoscimento del ruolo dei partiti è un dato centrale della Costituzione, che va conservato. I partiti sono gli interpreti di quelle passioni collettive senza le quali si rende difficile il formarsi di quel "patriottismo della Costituzione", in cui nelle società moderne e democratiche si manifesta la stessa identità nazionale.

SECONDA PARTE:
RICOSTRUIRE COESIONE E FIDUCIA NEL PAESE

L’italiano Romano Prodi guiderà la Commissione europea nei prossimi anni di avvio dell’euro e di allargamento dell’Unione; Roberto Benigni vince tre oscar; il capitalismo italiano comincia a investire decine di migliaia di miliardi all’estero; una generazione nuova di finanzieri e di manager sta organizzando nel settore delle telecomunicazioni e del credito prove tecniche di vero libero mercato; nel mezzogiorno nascono nuove imprese in misura percentualmente superiore al nord; nel nord est il 75% dei lavoratori cambia azienda nel giro di tre anni; complessivamente nel paese il numero dei lavoratori con rapporto atipico sta raggiungendo quello dei tradizionali lavoratori dipendenti.
C’è vitalità, dinamismo, nuova classe dirigente più di quanto non si dica in quest’Italia dalle mille facce
.
Sì, è proprio così: oltre alle facce accattivanti del dinamismo e della modernità, ci sono quelle dei problemi, per lo più comuni ai paesi industrializzati, anche se non di rado da noi assumono dimensioni più gravi, come quelli della caduta demografica e dello "sfrangiamento" del tessuto sociale e, dunque, del conflitto generazionale che - se non governato e sanato - potrebbe approdare a sbocchi drammatici.

La questione demografica. Il Patto fra generazioni. La famiglia
come motore di cambiamento sociale

La questione demografica ci pone di fronte a un evento che si presenta per la prima volta nell’età moderna e si configura dunque come una esperienza del tutto nuova.
L’andamento demografico assume direzioni opposte nella varie parti del pianeta: c’è un decremento della popolazione soprattutto (ma non solo) nei Paesi sviluppati, in Europa e, in particolare, nel nostro Paese, mentre nel resto del pianeta la popolazione è in aumento.
In Italia, nei 30 anni tra il 1961 e il 1991 la popolazione era cresciuta di circa 6 milioni di unità e nel precedente trentennio, tra il 1931 e il 1961, l’aumento era stato di 9 milioni. Ma nel decennio in corso il Paese si trova con una crescita nulla. Nel 1994 l’Italia è stato il primo paese al mondo in cui gli ultrasessantacinquenni avevano superato le persone con meno di quindici anni.
Se noi guardiamo al periodo della crescita, notiamo un andamento congiunto dell’aspetto demografico e dell’aspetto economico. Tralasciando aspetti e implicazioni della crescita possiamo affermare che l’italiano (e l’europeo) si è abituato a vivere in una società in crescita, nella quale domanda e produzione sono in continua espansione e ogni generazione si è trovata, a un qualche punto della vita, ad essere più numerosa della generazione precedente. Ogni persona anziana, guardando indietro alla sua età giovanile o alla sua infanzia, si vedeva collocato, in questa età più giovane, in una società meno numerosa, in città meno affollate, in paesaggi meno costruiti, in ambienti meno provvisti di beni materiali. L’immagine che si presenta avanti ai suoi occhi è l’effetto congiunto della crescita demografica e di quella economica.
A questa sensazione di crescita gli europei sono abituati, all’incirca, dall’avvento della rivoluzione industriale.
Le ultime tendenze, invece, mostrano che la componente demografica sta esaurendo il proprio contributo e, addirittura, sta cambiando di segno.
Peraltro, al decremento demografico in vaste aree del pianeta, non solo in quelle sviluppate e ricche, corrisponde un incremento in aree in via di sviluppo o di povertà.
In questa fase storica tale scarto demografico non può essere "livellato" dalla "mano invisibile" del mercato. Un sistema di libero scambio - a condizione che il mercato funzioni e nella aree di scarsità si abbiano risorse per acquistare ciò che altrove è abbondante - è possibile livellare scarsità e abbondanza di un bene. Ma per gli individui ciò non è possibile in quest’epoca storica.
Dobbiamo quindi cercare di immaginare le conseguenze di questo decremento, poiché questo è il fenomeno che investe il nostro Paese e il nostro Continente. Supponendo per l’Italia una mortalità ancora in leggera diminuzione e un’intensità riproduttiva pari a quella straordinariamente bassa dell’ultimo quindicennio, le dimensioni della popolazione, tra trent’anni esatti - secondo Livi Bacci - diminuiranno di quasi sei milioni di unità, il che vuol dire che la popolazione oltre i 60 anni aumenterà oltre i cinque milioni e quella sotto i 60 diminuirà di quasi 11; in altri termini i sei milioni del decremento demografico sono la somma algebrica dell’aumento di popolazione (circa 5 milioni) oltre i 60 anni e della diminuzione della popolazione (circa 11 milioni) al di sotto dei 60 anni.
A parte previsioni e proiezioni, è certo che buona parte del futuro demografico (di un futuro demografico non remoto) è iscritta nella realtà di oggi, per cui la riduzione della popolazione avviene per la forte diminuzione della nascite dovute alla bassa riproduttività, che, se dovesse permanere, comporterà che le nascite si ridurranno ancora di più. Non siamo in presenza di un fenomeno di allentamento della pressione demografica una tantum, che di per sé potrebbe persino esplicare benefici effetti. Ciò che preoccupa, in altri termini, non è la diminuzione numerica della popolazione – i sei milioni in meno nei prossimi trent’anni -, ma il fatto che questa diminuzione, poiché avviene a causa del debole rinnovo della "base" della piramide per età, può finire col capovolgere la piramide stessa e, comunque, ci pone di fronte a un fenomeno non sostenibile e a processi demografici ugualmente non sostenibili, né sotto il profilo bio-demografico, né sotto quello economico o sociale.
Risulta, dunque, evidente, che il problema è: come modificare le tendenze in corso.
Una prima ipotesi potrebbe essere l’opzione migratoria. Essa potrebbe compensare in modo algebrico il deficit delle nascite, ma richiederebbe un flusso migratorio di tale dimensione –di portata analogo a quello che alimentò l’aperta società nordamericana all’inizio del secolo – che è un’eventualità improponibile in questa fase storica. L’opzione migratoria può avere solo carattere meramente sussidiario e complementare
D’altra parte, non sussistono altre ipotesi per cui possiamo fare affidamento sulla virtù di meccanismi autocorrettivi, che si dovrebbero mettere in moto perché la società e le persone che la compongono ricevono un danno dalle tendenze demografiche in corso, dando luogo a una composizione meccanica delle scelte individuali. Di questo spontaneo assestamento non si può avere alcuna certezza, poiché i comportamenti sono dettati unicamente dalla convenienza individuale e non sarà certo per far piacere alla società che le coppie metteranno al mondo un certo numero di figli, ma solo se questo verrà a coincidere con i loro interessi e con le loro aspettative.
Peraltro, è oggetto di evidente constatazione che sulle decisioni individuali pesano spesso condizionamenti sociali e normativi che ne appannano la volontarietà. Se ne deduce pertanto che l’intervento pubblico può correggere solo in parte l’insieme delle decisioni individuali, anche se ci si può chiedere se sia legittimo che la mano pubblica intervenga a forzare comportamenti individuali legati al fondo più intimo della personalità, della libertà e della responsabilità degli individui e delle famiglie, essendo la famiglia "come un’isola che il mare del diritto può cambiare, ma lambire soltanto; la sua intima essenza rimanendo metagiuridica". Peraltro la laicità dell’approccio non esclude e non può significare esclusione di qualsiasi tipo di adesione a un principio etico, dal momento che gli interventi della mano pubblica debbono essere idonei a orientare verso il bene della società scelte individuali, la cui espressione costituisce diritto inalienabile della personalità. Siamo a un passaggio che coinvolge quell’etica della responsabilità, di cui, sul piano speculativo, è massimo esponente Hans Jonas e di cui già si è fatta applicazione riflettendo sull’immenso potere che l’umanità ha acquistato sull’ambiente, tale che essa potrebbe modificarlo irreversibilmente o quasi irreversibilmente, o potrebbe compromettere la sua fruizione da parte delle generazioni future, o addirittura potrebbe mettere a repentaglio la sopravvivenza stessa di queste generazioni future. Hans Jonas, per l’appunto, ha formulato per l’ambiente questo principio etico e lo ha espresso con le seguenti formule, tra loro equivalenti: "Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita sulla terra", oppure "Non mettere in pericolo le condizioni di sopravvivenza indefinita dell’umanità sulla terra", oppure ancora :"Includi nella tua scelta attuale l’integrità futura dell’uomo come oggetto della tua volontà".
Come non si può dubitare della legittimità dell’intervento della mano pubblica al fine di indirizzare comportamenti privati in campo ambientale, non possiamo in alcun modo dubitare – a prescindere da opzioni di fede e di morale - della legittimità dell’intervento pubblico anche in campo demografico.
Si tratta di un obiettivo non facile da perseguire. Basti pensare che in Svezia le politiche volte a questo scopo - peraltro coronate da successo poiché in pochi anni hanno portato l’indice di fecondità da 1,3 a 2,5 - vengono qualificate con il termine di art. "l’arte di sincronizzare e conciliare vita professionale, condizione di genitore e crescita individuale".
Da queste considerazioni traiamo, dunque, in prima istanza, una forte motivazione a impegnarci con maggiore determinazione nel sostenere le nostre scelte prioritarie verso politiche di sostegno alle famiglie e all’infanzia e di accoglienza alla vita.
Ma è opportuno procedere verso un ulteriore grado di affinamento delle considerazioni stesse. Se le attuali tendenze sono sfavorevoli e dannose per la collettività; se l’intervento pubblico è lecito e già in numerosi modi dirige e influenza i comportamenti demografici, possiamo e dobbiamo specificamente domandarci quale tipo d’intervento sia possibile per modificare una situazione che giudichiamo non conveniente.
Sotto l’aspetto della dimensione economica del fenomeno, la bassa natalità si spiega col fatto che i costi dei figli sono cresciuti più dei benefici che essi arrecano, perché lo sviluppo comporta crescenti investimenti sui figli in cibo, vestiario, salute, formazione, istruzione; perché la cura dei figli richiede tempo, soprattutto da parte della madri, che lo sottraggono al lavoro e, quindi, alla produzione di reddito tanto più alto quanto più alta è la loro istruzione.
Nella società contadina era razionale avere molti figli, perché il loro costo aveva una scarsa incidenza, il tempo della madre aveva scarso valore sul mercato e i figli rendevano benefici fin da piccoli, nella prospettiva di avere benefici ben maggiori una volta adulti, specialmente per il sostentamento dei vecchi genitori.
Nelle società postindustriali i valori di tutti i suddetti elementi si sono profondamente alterati, con la conseguenza che l’equilibrio tra costi e benefici si raggiunge a un livello molto più basso di fecondità. Questo è un dato oggettivo, ma, giacché è possibile, è preferibile esprimere lo stesso concetto con un linguaggio non economico, il quale concettualmente ha o potrebbe esprimere una certa ambiguità. Infatti, se si trattano i figli esclusivamente come un bene privato, potrebbe farsi derivare il corollario che sarebbe erroneo dare provvidenze alle famiglie numerose per rimediare al loro disagio, perché esse hanno razionalmente scelto il "bene figlio" a preferenza di altri beni e, quindi, non sono in una situazione diversa di chi avesse acquistato una macchina dalla manutenzione troppo costosa. Si tratterebbe, invero, di un corollario arbitrario, poiché abbiamo visto che il problema della riproduttività va collegato a un principio etico, in forza del quale è pienamente sostenibile l’assunto che i figli sono un "bene pubblico", in quanto essi producono servizi di cui tutta la collettività beneficia. Il più evidente di questi servizi è che da adulti essi erogheranno contributi che serviranno –per esempio – a pagare le pensioni di tutti, anche di chi legittimamente ha deciso di non avere figli.
L’intervento pubblico, allora, dovrà agire alleggerendo i costi, soprattutto quelli traducibili in moneta. Si può pensare a una serie di possibili interventi: da quelli diretti ad alleviare il carico di lavoro domestico che grava specialmente sulla donna, che permetterebbero di conciliare lavoro e cura della prole; al coordinamento dei tempi e orari di lavoro, scuola, vacanza; alla fruizione di servizi per infanzia e bambini; all’eliminazione delle distorsioni circa i carichi contributivi e fiscali per chi ha figli e chi non ne ha; a interventi che accelerano l’autonomia economica dei figli dai genitori, a veri e propri sostegni monetari a famiglie con figli.

Per il vero, le considerazioni svolte ci hanno condotto nel cuore del welfare, del nuovo patto sociale che lega il futuro dei giovani col futuro del Paese, garantisce i diritti degli anziani e dei minori, riconosce nella famiglia una ricchezza civile, oltre che una, anzi la fondamentale società naturale, governa l’immigrazione, affronta unitariamente e, nello stesso tempo, in modo articolato, la questione della sanità, dell’assistenza sociale e della previdenza.
Il welfare è un sistema di trasferimenti tra generazioni che, nella sua attuale strutturazione, secondo Livi Bacci, tende a deprimere le nascite. E’ quindi evidente che, per favorire una ripresa delle nascite, occorrerebbe una profonda riforma del welfare.
Se guardiamo al sistema dei trasferimenti nelle società tradizionali, prevalentemente agricole, vediamo che il rapporto tra le generazioni è caratterizzato da una semplice ripartizione di funzioni: agli adulti competono le spese di cura e allevamento dei figli e il sostegno dei genitori azioni e inattivi; col passare del tempo gli adulti si fanno vecchi e vengono sostenuti dai figli divenuti adulti che sopportano anche il carico dei loro propri figli. Lo Stato non preleva e non distribuisce. Il legame tre generazioni è assicurato da questo patto via via rinnovato col succedersi delle generazioni stesse. Certo capitava che alcune coppie avessero molti figli e altre pochi o nessuno, creando disuguaglianze, che, in una certa qual misura, venivano temperate da adozioni, da contratti di garzonato dalle solidarietà familiari, dalla carità pubblica e privata. Tuttavia la riproduzione serviva anche ad assicurare la sopravvivenza in vecchiaia. Le generazioni erano legate fra loro dal doppio vincolo biologico ed economico.
Nello Stato moderno invece è la mano pubblica che opera i trasferimenti: preleva dagli adulti produttori e trasferisce agli anziani, facendosi carico del loro mantenimento. L’onere della cura e dell’allevamento dei figli continua a gravare direttamente –salvo qualche sostegno per l’istruzione- sui genitori, ma il vincolo economico diretto tre generazioni si spezza, perché il figlio non sottoscrive nessun patto di reciprocità con i genitori di cui questi possono avvalersi in vecchiaia. Il patto che egli sottoscrive è invece con lo Stato, al quale cede una parte dei suoi proventi dietro promessa di trasferimenti futuri sotto forma di pensioni, secondo determinate regole. L’adulto che sceglie di non avere figli –o che fa figli meno della media- non sostiene l’onere del loro mantenimento e conta sul patto sottoscritto con la mano pubblica per essere sostenuto in vecchiaia. Sotto il puro profilo economico –lasciando da parte altri benefici, soprattutto quelli affettivi- egli ci guadagna, mentre l’adulto che ha più figli della media subisce una perdita. Lasciato a se stesso un tale sistema tende a trascinare la fecondità verso il basso, privilegiando comportamenti "sotto la media" –oggi rappresentata dall’avere un figlio o dal non avere nessun figlio-. Ma minore fecondità significa aumento della quota anziani e, in parallelo, aumento del loro peso politico e maggiore resistenza al mutamento delle regole in favore delle giovani generazioni, autoalimentando così le distorsioni.
Le implicazioni di un sistema di governo dei trasferimenti che consideri aspetti demografici di equità - analizzate sul piano scientifico – conducono alla conclusione che i prelievi da chi produce debbono incidere sul reddito prodotto depurato dai trasferimenti –o da una parte significativa dei trasferimenti-, che le famiglie operano verso i figli. Questo non garantisce che la produttività rimanga a livello di rimpiazzo - almeno due figli per coppia – ma, ci dicono le analisi - raggiunge due obiettivi positivi. Il primo comsiste nell’eliminazione o nella attenuazione dell’iniquità consistente nell’eccesso di prelievo da coloro che investono in figli –che, si ripete, sono un bene pubblico, oltre che privato, che produrrà benefici per la collettività- e neutralizza la deriva demografica verso il basso che si mette in moto quando si privilegia una riproduttività "sotto la media" -meno di due figli per coppia -. Il secondo obiettivo positivo è che si riattiva un vincolo di responsabilità, perché ognuno sa che indipendentemente dalle sue libere e inalienabili scelte riproduttive deve, in qualche modo, contribuire al welfare del bene pubblico "figli".
A considerazioni analoghe si giunge considerando i trasferimenti secondo l’età. Con riferimento al 1995, calcolando il saldo tra il "dare" –contributi, imposte e tasse versate- e l’ "avere" –valore dei servizi e contributi ricevuti (istruzione, sanità, assistenza, pensioni)- ne è risultato che giovani e anziani sono percettori netti e gli adulti sono erogatori netti. Questo risultato non è una sorpresa, ma ciò che interessa è che i giovani sono beneficiari netti solo fino a 17 anni; da 18 a 59 anni il segno si inverte, per poi cambiare di nuovo dopo i 60 anni. In un sistema nel quale si trasferisce molto verso gli anziani (da 60 in poi e con quote pro capite relativamente elevate) e poco verso i giovani (fino a 17 anni e con quote pro capite mediamente assai più basse) è conveniente, per ogni adulto, avere pochi figli poiché a questi viene trasferito poco dalla mano pubblica e poiché si sa che lo Stato sarà generoso in vecchiaia. In aggiunta, questo sistema aggrava in modo abnorme la funzione solidaristica del sistema familiare, poiché sovraccarica di doveri i genitori e tarpa le ali al passaggio dei giovani allo stato adulto. Al contrario in una situazione nella quale si trasferisse assai di più ai giovani –e proporzionalmente meno agli anziani- si attenuerebbe l’incentivo alla bassa fecondità perché ai figli lo Stato trasferisce maggiori risorse e da essi si può, inoltre, sperare di avere qualcosa in vecchiaia. La mano pubblica, che regola il profilo della curva dei trasferimenti per età, è teoricamente in grado di calibrarne la forma e i punti di flessione in maniera non ostile alla produzione nell’intento di governare la deriva riproduttiva.
La seconda conclusione è che la bassa riproduttività è la conseguenza principale di una "sindrome del ritardo" che ha colpito la società italiana, in maggior misura delle altre società europee, spostando in avanti in maniera quasi patologica l’età dell’assunzione di responsabilità e della formulazione delle scelte. La riproduttività può vedersi come un processo, il cui inizio è costituito dalla maturazione sessuale e il termine dalla perdita delle capacità biologiche di concepire. Una delle linee portanti della storia demografica e sociale dell'’Europa nell'età moderna è stato il graduale spostamento dall’inizio effettivo dell’età riproduttiva da poco dopo la pubertà a età molto più elevate, che oggi, per la maggioranza delle donne italiane, si avvicina ai 30 anni. Questo processo storico di "ritardo" ha avuto un’accelerazione durante gli ultimi vent’anni. Risultati di indagini nazionali sulla fecondità mostrano, in etrema sintesi, due aspetti di uno stesso fenomeno. Il primo riguarda le aspettative: quasi tutte le donne e quasi tutti gli uomini desiderano avere almeno una figlia o un figlio e, in media, desiderano averne due; tuttavia le decisioni riproduttive appaiono come l’approdo finale di una serie di tappe ordinate in sequenza. Il secondo aspetto è costituito dal progressivo ritardo col quale generazioni recenti completano gli studi, iniziano l’attività lavorativa, escono dalla famiglia, formano una convivenza, divengono genitori.
Veniamo al primo aspetto: è vero che tutti sentono il desiderio di maternità e di paternità e intendono realizzarlo, ma è vero anche che ciò non avviene incondizionatamente. Dalle inchieste emerge nitidamente che giovani donne e giovani uomini reputano necessario che ambedue i partner abbiano concluso gli studi; che abbiano un lavoro; che vi sia una disponibilità di una casa; che si crei una unione stabile quasi sempre formalizzata in matrimonio. Il percorso che conduce alla riproduzione indica la costruzione di una stabilità gradualmente acquisita per tappe intermedie. E’ qui sta la differenza col passato: non tanto nella condizione di "stabilità", requisito per avere dei figli, ma nella gradualità con cui questa viene raggiunta a differenza di generazioni precedenti dove distacco dalla famiglia di origine, casa, lavoro, gratificazioni sessuali, matrimonio potevano anche essere eventi contemporanei. E’ qui che s’innesta il secondo aspetto: le indagini confermano l’allungamento delle teppe del percorso delle generazioni recenti a cominciare dall’allungamento del periodo di studio che avviene non solo perché una maggiore porzione dei componenti di ciascuna generazione affronta studi più lunghi, ma anche per l’eccessiva lunghezza del tempo impiegato per concludere i vari curricula.
La concatenazione dei ritardi fra le varie tappe fa sì che per un consistente e crescente numero di coppie il momento della decisione di avere un figlio, pur desiderato e programmato, avvenga in una fase avanzata della vita riproduttiva; che questo programma non possa essere realizzato, per alcune, per il sopraggiungere dell’infertilità, per altre per rottura o instabilità dell’unione, per altre ancora per la percezione di un costo fisico psicologico accresciuto rispetto alle aspettative.
La sindrome del ritardo è quindi una causa della bassa riproduttività. La mano pubblica non può efficacemente intervenire su pulsioni, valori, ideali che sono alle radici profonde delle scelte di riproduttività, le cui modificazioni possono avvenire solo per l’azione- difficilmente concertabile- di istituzioni, associazioni, gruppi, individui che determinano il corso della cultura. Però può -e deve- intervenire per attenuare gli effetti della sindrome: può contenere la lunghezza effettiva della formazione in durate più ridotte ed europee; può incoraggiare esperienze e spezzoni di lavoro precoci, contemporaneamente agli studi ed accelerare l’ingresso definitivo al lavoro rimuovendo le cause dell’abnorme disoccupazione; può rendere più facile l’accesso ad un alloggio (mutui agevolati, detassazione di donazioni; affitto) può, in breve, accorciare il tempo di percorrenza di quelle tappe il cui superamento apre l’accesso alle decisioni riproduttive. Tutto ciò che accelera il conseguimento dell’autonomia, che incoraggia l’assunzione di responsabilità, che rende spendibili formazione e capacità senza attendere che esse ristagnino o deperiscono –oltre a sostenere lo sviluppo- ha un doppio significato demografico. Da un lato diminuisce, per le famiglie, il tempo di dipendenza dei figli e quindi alleggerisce il costo di riproduzione e formazione della prole; dall’altra accorcia i tempi delle scelte riproduttive.
Se la scarsità di risorse umane che si va profilando è insostenibile; se è del tutto incerto che si verifichi un riequilibrio spontaneo per opera dell’azione miracolosa della mano invisibile; se accettiamo il principio etico che non è lecito compromettere sviluppo e benessere delle generazioni future; se sottoscriviamo la liceità –entro i ben noti limiti che cultura e diritto ci impongono- dell’intervento pubblico e politico (che peraltro già opera in mille surrettizi modi) possiamo concludere che si sono individuate due precise linee d’azione. Alle quali si aggiunge una terza linea, complementare e sussidiaria.
La prima linea d’azione consiste nel raddrizzare la deriva demografica - che conduce a comportamenti "sotto la media" - guidata dal modus operandi dei conferimenti sociali. Si tratta di una deriva tanto più potente in quanto mossa dallo spostamento di oltre un terzo delle risorse prodotte - al netto delle spese per beni pubblici quali difesa e giustizia e per interessi sul debito pubblico - e che può mutare rotta modificando il profilo per età dei trasferimenti netti a favore dei giovani.
La seconda linea d’azione consiste nell’azione normativa sociale e finanziaria diretta ad accelerare i passaggi di vita che precedono e condizionano la piena autonomia e l’assunzione di responsabilità; si accorcia così la dipendenza dalla famiglia alleviando il costo dei figli e si attenua la "sindrome del ritardo", causa non secondaria della bassa fecondità.
Le due linee d’intervento si sovrappongono e si combinano in un maggiore investimento pubblico nella risorsa umana che oggi è scarsa –bambini e giovani – migliorandone la formazione, anticipandone l’autonomia, accrescendone la produttività. Tra l’altro, contribuendo a sollevare la famiglia da compiti eccessivamente impegnativi e prolungati di sostegno e protezione, questa doppia azione introduce maggiore equità riducendo l’influenza delle risorse familiari –oggi determinante- sul destino delle generazioni dei figli.
La terza linea, sussidiaria e complementare, riguarda la politica dell’immigrazione che certamente dovrà contemplare adeguati flussi d’ingresso, un preciso cammino d’integrazione, un forte investimento sociale sugli immigrati stessi e, soprattutto, sui loro figli.

Una scuola moderna e dinamica ma non leggera,
primo e sempre più spesso unico luogo di incontro e di formazione
di tutti, senza distinzione alcuna, i ragazzi italiani

Una scuola e una università "più corte" e "più intense", più moderne, più intrecciate con il mondo del lavoro (attraverso esperienze di formazione in alternanza scuola-lavoro) e con la realtà esterna, possono aiutare a ridurre la sindrome del ritardo, cioè a inserire prima e meglio i giovani nel mondo del lavoro e nelle responsabilità adulte, riducendo frustrazioni, prolungamenti adolescenziali e paura del futuro.
I giovani debbono poter raggiungere la laurea a 22/23 anni come nella maggior parte dei paesi europei e per far ciò occorre non solo abbreviare i cicli scolastici e la durata dei corsi di laurea come parlamento e governo italiani stanno facendo, ma occorre puntare a riforme capaci di "concentrare" produttivamente gli anni dell’insegnamento universitario, riducendo sia gli abbandoni che i prolungamenti. Utile a questo proposito può risultare il caso della Gran Bretagna dove solo il 6,2% degli studenti abbandonano l’università (in Italia il 64%) grazie alla riforma introdotta all’inizio degli anni ’80 che ha creato una sorta di processo di controllo della "maturazione progressiva" dello studente, strettamente regolato nel quadro di un sistema di tutorato. Tale maturazione deve avvenire in principio entro tre soli anni e l’80% degli studenti raggiunge entro tale termine il traguardo.
Ma dalla Gran Bretagna possiamo trarre indicazioni per realizzare ciò che da tempo inutilmente perseguiamo, cioè il Sistema nazionale di valutazione. Non possiamo impiantare semplicemente il modello dell’Ofsted (Office for Standard in education) probabilmente non adeguato alla nostra scuola, ma non possiamo più dilazionare la trasformazione del nostro modello attraverso la realizzazione : di una vera autonomia che porti le nostre scuole a diventare - sotto la guida di un dirigente con ampi poteri di indirizzo - "scuole della comunità"; di una politica di formazione e di incentivazione delle migliori professionalità tra i docenti; di un modello di controllo della qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento da parte di una autorità indipendente, non allo scopo di distribuire "voti, premi e punizioni" ma per acquisire tutti gli elementi utili a migliorare l’attività educativa; di un organico sistema educativo integrato, in cui istituzioni statali e non statali siano messe in "condizioni paritarie" per poter svolgere la medesima funzione educativa pubblica.
Ma la scuola è il luogo, ormai l’unico luogo, in cui convivono tutti i ragazzi e i giovani italiani, senza distinzione di censo, classe, etnia o religione: una occasione straordinaria, l’unica disponibile, di formazione e di trasmissione, oltre ai valori della tradizione e dell’etica esistenziale, dei valori e dei saperi "di vita quotidiana" (dall’educazione alla politica, a quella sanitaria, a quella stradale), l’unico luogo in cui è possibile promuovere le alfabetizzazioni elementari per il cittadino europeo: quella linguistica e quella informatica.Non vogliamo una scuola totalizzante o anche solo invasiva degli spazi propri della famiglia e della società, ma vogliamo che tutte le sue potenzialità vengano messe a disposizione di una
società alle prese con i nuovi problemi derivanti anche dalle scarse occasioni di reale socializzazione offerte oggi ai giovani.

"Duri contro il crimine, duri contro le cause del crimine",
per poter vivere meglio la città

Il governo ha risposto in modo serio e responsabile alla domanda di sicurezza che ormai proviene da tutte le città: le iniziative legislative proposte, potranno essere migliorate in parlamento, ma già rappresentano l’indicazione di una strada giusta.
La sicurezza personale è un problema reale, soprattutto in certe aree urbane. In questi giorni si è rivisto un atteggiamento di rincorsa a modelli stranieri. Più che il modello di Rudolph Giuliani, trovo condivisibile l’orientamento di Blair, che in questi anni ha parlato di un governo "duro col crimine, ma anche con le cause del crimine". C’è infatti un aspetto repressivo che va rafforzato, ma ci deve essere anche la consapevolezza che per stroncare certi fenomeni bisogna prosciugare lo stagno in cui nascono, questo stagno spesso (non sempre) si chiama povertà, sfruttamento, esclusione. Il ruolo delle amministrazioni locali è quello, concorrente con le forze di polizia ma non di competenza primaria, di contrasto severo dell’illegalità di ogni tipo (e non solo alla criminalità), ma è anche quello, primario, di dare risposte a livello educativo, con interventi sul piano della scuola, della famiglia, dei centri di aggregazione e di integrazione, della casa.
Dobbiamo comunque rafforzare le politiche di integrazione, perché questo sono nello stesso tempo politiche di prevenzione della microcriminalità, e non solo di quella. Oltre alle politiche sui servizi tradizionali, si può pensare a: convenzioni fra Comuni e Questure e le principali comunità di extracomunitari, per la segnalazione di episodi e individui sospetti, e per l’identificazione, o quantomeno l’accertamento della nazionalità e della zona di provenienza, dei fermati e degli indagati (attraverso domande mirate e sempre più specifiche, ovviamente non sul piano investigativo). Questa esperienza, oltre ad essere uno strumento prezioso per le forze dell’ordine e per certi servizi dei comuni è un’occasione di responsabilizzazione delle comunità di extracomunitari. La sicurezza personale decresce laddove è sempre più rarefatta la presenza degli abitanti, e quindi ci si deve porre primariamente il problema dei centri storici, evitando che questi siano pieni di banche e boutique ma poveri di piccoli negozi di alimentari e di servizi di base (come le poste). Questi sono gli strumenti primari per mantenere una presenza abitativa nei centri storici , mentre per incoraggiare i piccoli commercianti a restare nei centri storici bisognerà pensare a incentivi e forme di detassazione: un centro storico con sempre meno servizi e negozi di base si accompagna spesso ad una popolazione sempre più anziana, la quale è sempre più in difficoltà a viverre in queste zone: il risultato è un centro storico sempre meno abitato e quindi sempre meno presidiato, e per questo più insicuro.
In ogni caso non è giusto identificare il problema della sicurezza urbana esclusivamente con quello della presenza dei cittadini extracomunitari nel nostro territorio, né considerarlo un problema esclusivamente o anche prevalentemente italiano: analogo dibattito sul tema si sta oggi sviluppando in ogni paese europeo, segno che nasce da ragioni "strutturate" al nostro modello di sviluppo e di civiltà. La marginalità che diventa esclusione, la perdita dei legamenti che "tengono" internamente il tessuto sociale, l’abbassamento della soglie etiche nei comportamenti privati e pubblici, la secolarizzazione dei modelli di vita, sono tutte ragioni che spiegano quanto sta accadendo.
Ma, trattandosi di fenomeno diffuso, è giusto che l’Unione europea, affronti - per quanto possibile - l’onere di una risposta organica e unitaria. Ad oggi le previsioni di intervento dell’Unione possono basarsi solo sul Trattato di Amsterdam, dal quale è possibile dedurre:
L’acquis di Schengen
Fino ad ora l’obiettivo della cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interno si è sempre limitato alla libera circolazione delle persone, con l’effetto di concentrare gli sforzi sulle misure destinate a compensare la scomparsa dei controlli alle frontiere interne con l’adozione di un certo numero di strumenti utili e importanti a questo scopo.
Grazie all’integrazione dell’acquis di Schengen, l’Unione disporrà di una base solida su cui sviluppare al suo interno uno spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia, operando un vero salto qualitativo.
Politiche di immigrazione e di asilo
Per quanto riguarda le future priorità, considerazioni diverse vanno fatte per la politica dell’immigrazione, da un lato, e per la politica d’asilo, dall’altro. Le iniziative in questi settori saranno determinate essenzialmente da fatto che , il nuovo trattato impone di intervenire nei cinque anni successivi alla sua entrata in vigore, in numerosi settori connessi all’immigrazione e al diritto di asilo, sia sul fondo che sulla procedura. E’ già stata realizzata un’enorme massa di lavoro, ma gli strumenti impiegati presentano due punti deboli: essi, infatti, si basano spesso su atti privi di effetti giuridicamente vincolanti, come le risoluzioni e le raccomandazioni, e non prevedono adeguati meccanismi di controllo. L’impegno contenuto nel trattato di Amsterdam di utilizzare in futuro questi strumenti comunitari, consente di correggere questi punti deboli.
Per quanto riguarda l’immigrazione, tutti gli Stati membri sono soggetti a pressioni migratorie da diverse provenienze - spesso nuove -, a cui devono reagire trovando un equilibrio fra considerazioni economiche e considerazioni umanitarie, e conformandosi, al tempo setto, alla legislazione comunitaria e a importanti accordi internazionali.
Questo problema si pone in particolare nel caso del ricongiungimento dei nuclei familiari, che costituisce la più importante forma di immigrazione sempre ammessa dall’Unione. La soppressione dei controlli alle frontiere interne e la nozione di frontiere esterne comuni rendono tanto più auspicabile per l’Unione lo sviluppo di impostazioni simili e di una cooperazione più stretta nel settore della politica dell’immigrazione. In questo conteso, una priorità importante sarà la lotta contro la tratta di esseri umani.
Nel caso del diritto di asilo, la base comune su cui si poggia il regime europeo dei rifugiati è la convenzione di Ginevra del 1951. Il Consiglio ha già deciso orientamenti comuni in merito all’interpretazione della definizione di rifugiato contenuta in detta convenzione, ma sono ancora necessarie altre misure. E’ urgente, infatti, completare la convenzione di Ginevra con strumenti che consentano di far fronte alle attuali sfide in questo campo e, in particolare, a casi di afflusso in massa di persone che cercano protezione internazionale.
Integrazione dei cittadini di paesi terzi
Un concetto ampio di libertà non può essere riservato esclusivamente ai cittadini dell’Unione europea; deve includere anche i cittadini di paesi terzi il cui numero supera i dieci milioni che vivono legalmente e stabilmente nei nostri Stati membri.
Fino ad oggi, le iniziative in questo settore non hanno avuto carattere generale e sistematico, limitandosi piuttosto a misure specifiche (per esempio il coordinamento sei sistemi di sicurezza sociale). L’Unione europea deve pertanto definire una posizione comune precisando in che misura i cittadini di paesi terzi e i cittadini dell’Unione europea hanno diritto allo stesso trattamento. Analogamente, si dovrà proseguire la riflessione per quanto concerne la distinzione fra i cittadini di paesi terzi giunti di recente e quelli che vivono da tempo negli Stati membri in modo stabile.
Uno spazio di sicurezza
I vantaggi offerti da uno spazio di libertà, tuttavia, sono nulli se coloro che ne beneficiano vivono in uno spazio in cui non si sentono sicuri.
Come emerge chiaramente, l’obiettivo del nuovo trattato non è creare uno spazio di sicurezza europea consistente in un territorio comune nel quale verrebbero applicate procedure uniformi di individuazioni e di indagine a tutti i servizi repressivi competenti in Europa per le questioni di sicurezza.
Il trattato di Amsterdam fornisce piuttosto un quadro istituzionale nel cui ambito sviluppare un’azione comune fra gli Stati membri in settori indissociabili dalla cooperazione in materia di polizia e di giustizia sociale. L’obiettivo dichiarato è prevenire e combattere , al livello appropriato, la criminalità "organizzata o di altro tipo, in particolare il terrorismo, la tratta degli esseri umani e i reati contro i minori, il traffico illecito di droga e di armi, la corruzione e la frode".
Europol
Il nuovo trattato riconosce il ruolo centrale ed essenziale che dovrà svolgere Europol, quando esige l’adozione di un certo numero di misure specifiche nei cinque anni successivi alla sua entrata in vigore. In particolare, esso prevede una cooperazione rafforzata e compiti di carattere maggiormente operativo per questo organismo. Ora che la convenzione Europol è stata finalmente ratificata da tutti gli Stati membri, è dunque importante avviare al più presto le azioni per l’attuazione di queste misure, al fine di mettere Europol in condizione di svolgere pienamente il suo nuovo ruolo di strumento indispensabile di cooperazione europea. Questi sviluppi dovrebbero basarsi sull’acquis dell’Unità droghe di Europol che, in quanto precursore di Europol stesso, ha acquisito una certa esperienza in settori quali lo scambio di informazioni, il sostegno tecnico operativo, le analisi dei rischi e le relazioni sulla situazione.
Criminalità organizzata
La criminalità organizzata rappresenta una minaccia grave e di proporzioni crescenti. Il fenomeno si sta sviluppando a livello internazionale ad una velocità allarmante sul piano sia della composizione che delle dimensioni. Da un lato, infatti, assistiamo alla creazione di strutture illegali nei paesi dell’Unione europea da parte di un certo numero di organizzazioni criminali straniere, dall’altro, vediamo aumentare anche la cooperazione transfrontaliera fra tali organizzazioni e gruppi criminali all’interno degli Stati membri.
La risposta dell’Unione a questa sfida è contenuta nel Piano d’azione destinato a combattere la criminalità organizzata, approvato dal Consiglio europeo di Amsterdam, che prevede un’impostazione integrata a tutti gli stadi, dalla prevenzione alla repressione fino a i procedimenti penali.
Uno spazio di giustizia
Nell’Unione europea, i sistemi giudiziari si sono sviluppati gradualmente nel corso di un lungo periodo. Un sistema giudiziario indipendente ed efficace è un elemento essenziale dello Stato di diritto che è parte delle nostre tradizioni comuni.
Avendo seguito evoluzioni diverse nei vari Stati membri, i sistemi giuridici presentano notevoli differenze sia sul fondo che per quanto riguarda le procedure. E’ gioco forza constatare che gli ostacoli e le difficoltà che ne derivano sono difficilmente comprensibili per i cittadini dell’Unione, che dovrebbero poter circolare liberamente e condurre la loro vita privata in uno spazio senza frontiere interne, vuole essere uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Lo stesso dicasi per le imprese che operano nel mercato unico.
Le procedure
Le procedure devono offrire ovunque le stesse garanzie, in modo da evitare disparità di trattamento da una giurisdizione all’altra. Le norme possono essere diverse purché siano equivalenti. Questo riguarda in particolare le questioni relative ai diritti dalla difesa, dove andrebbero sviluppati dei principi comuni e dei codici di buona pratica (interpretazione, acquisizione delle prove, ecc.), ma potrebbe valere anche per quanti partecipano alle procedure a titolo diverso (testimone, vittima, esperto, ecc.). In materia penale, inoltre, le norme di procedura non dovrebbero limitarsi ai processi suscettibili di concludersi con una condanna, bensì anche all’esecuzione di una sentenza come, per esempio, la confisca di beni, la scarcerazione anticipata o condizionale e la reintegrazione.

Mercato, crescita e volontà politica per una efficace politica del lavoro
Il partito erede della tradizione politica che ha favorito la nascita e lo sviluppo dell’economia di mercato in Italia e in Europa, non ha bisogno di spendere parole per descrivere la propria convinzione che senza crescita non c’è lavoro. Né per commentare positivamente quanto sta accadendo in queste settimane in alcuni settori importanti dell’economia del paese, in particolare in quello del credito: abbiamo voluto l’Europa anche per questo, perché sapevamo gli effetti virtuosi del "vincolo esterno" rappresentato da un mercato europeo sempre più competitivo -.
E ora vogliamo il completamento della riforma fiscale, di quella lavoristica e previdenziale (alla scadenza prevista del 2001), del processo di privatizzazioni anche a livello locale, proprio per aiutare il sistema-paese a partecipare da protagonista alla competizione sempre più dura del mercato globale.
Ma noi continuiamo a parlare di economia sociale di mercato, perché seppure riconosciamo che i valori del mercato, soprattutto quello del rischio, dell’intraprendenza e della libertà sono assolutamente congrui con il magistero ideale cui ci ispiriamo, essi non possono essere fine a se stessi, essendo tali solo se inseriti in una finalità ulteriore che non può che essere quella della creazione di condizioni di lavoro e, dunque, di benessere e dignità per l’uomo, nella sua globalità che trascende sicuramente quella del mero homo economicus.
Ecco perché a nostro avviso l’occupazione, in particolare quella giovanile, resta l’obiettivo principale su cui concentrare le politiche di sviluppo.
Il problema si presenta in modo diverso al sud e al nord.
Al sud la dimensione della disoccupazione giovanile, quantunque in parte "compensata" da ampi spazi di lavoro sommerso ovviamente non protetto, è veramente drammatica. Il nuovo Patto sociale, la dit, gli altri incentivi all’investimento programmati per il 1999, i patti territoriali e i contratti d’area finalmente sulla strada della concretizzazione, il decollo di una rete portuale tra le più moderne d’Europa, dovrebbero promuovere condizioni nuove sia per l’emersione di attività sommerse, sia per nuovi investimenti e, dunque, per la creazione di nuovi posti di lavoro.
Due ostacoli ancora restano, uno di più facile e rapido superamento dell’altro.
In primo luogo va detto che occorrono aree industriali, occorrono strumenti urbanistici non aleatori, occorrono società per infrastrutturare e allestire "chiavi in mano" aree e stabilimenti: le Regioni, gli enti locali, le Camere di Commercio, le banche, le associazioni di categoria, vanno aiutati a mettersi insieme per costruire società operative allo scopo.
Ma occorre intensificare ulteriormente la lotta alla criminalità organizzata.
Non tutto il mezzogiorno soffre questa piaga, ma tutto il mezzogiorno paga l’immagine negativa di questa piaga. Questa è la priorità della priorità da affrontare se si vuole vincere la resistenza psicologica all’investimento di tanti operatori, italiani e stranieri, che cominciano a vedere il nostro mezzogiorno come alternativa all’ "investimento conveniente" fino ad oggi (ma non sarà più così, almeno nella stessa misura del passato) rappresentato dall’Irlanda, dalla Spagna e dal Portogallo .
Lo Stato sta facendo molto per la lotta alla criminalità macro e micro. Ma non basta ancora. Fino a che un imprenditore può dire "non mi fido" a investire, ("eppure vorrei, perché questa è l’area geograficamente più interessante per i mercati del duemila") non avremo efficacemente affrontato il problema del nostro mezzogiorno.
Nel settentrione e in gran parte del centro del paese i problemi invece sono diversi anche grazie a un tasso di disoccupazione più "europeo".
In questa parte del paese semmai i problemi sono quelli legati alla diffusione di nuove forme-lavoro meno protette: rapporti a tempo determinato, lavori interinali, rapporti a "ritenuta d’acconto" o a "partita IVA" che spesso mimetizzano rapporti di lavoro più tradizionali. Soprattutto i giovani sentono la suggestione ma anche i limiti di queste nuove forme di rapporto che descrivono una accentuata flessibilità e assieme una precarietà, fonte di insicurezza e apprensione verso il futuro. Meglio, sicuramente, il lavoro che un mezzo lavoro (il part time comincia a diffondersi, anche se la legislazione lavoristica italiana non ne consente ancora una grande utilizzazione come avviene in molti paesi dove grazie ad esso, come in Olanda, il tasso di disoccupazione è stato fortemente abbattuto), o che l’assenza di lavoro. Ma queste forme atipiche di lavoro lasciano nella totale incertezza il futuro delle nuove generazioni, anche sotto il profilo assistenziale e previdenziale. E’ necessario quindi prevedere qualche forma di copertura anche parziale rispetto ai rischi assistenziali e sanitari (maternità, salute, ...) e qualche forma assicurativo-previdenziale: il versamento del 12% di contribuzione dovrebbe dare diritto a tali lavoratori a un "bonus previdenziale" da spendere presso istituti previdenziali pubblici o privati.
Ma assieme all’area dei rapporti libero professionali fittizi, sta crescendo anche quella del lavoro autonomo vero e della micro-imprenditorialità che concorre a rendere più vitale e dinamica la nostra società. Questo è il volto moderno di un paese che si sta giorno dopo giorno omologando agli altri più avanzati dell’Europa.
L’Europa torna, dunque, come opportunità, non solo perché oggi l’obiettivo lavoro è assunto come tale dal Trattato di Amsterdam, perché l’Unione si è impegnata a monitorare semestralmente i Piani d’Azione per l’occupazione dei singoli paesi, e perché l’Unione si è impegnata a perseguire l’armonizzazione prima delle politiche fiscali poi delle più ampie politiche economiche nazionali, ma non di meno perché l’Europa si è impegnata a realizzare una strategia di promozione dello spirito imprenditoriale con le seguenti iniziative.
Una strategia di promozione dello spirito imprenditoriale
Per promuovere una cultura dell’impresa si è scelta una strategia a due livelli. Da una parte, occorrono misure dirette a incoraggiare i singoli a creare imprese e dotarli delle competenze necessarie perché le loro iniziative abbiano successo, tra l’altro attraverso riforme dei sistemi d’istruzione e di formazione, scambi culturali e misure destinate ad eliminare gli ostacoli alla creazione di imprese. D’altra parte, per promuovere lo spirito imprenditoriale ci si impegna a creare condizioni favorevoli alla nascita, alla crescita ed al trasferimento delle imprese. Questo richiede una semplificazione amministrativa radicale e un miglioramento del contesto normativo e finanziario, come pure l’accesso ai programmi comunitari, in particolare a quelli riguardanti le attività di R&ST ed i Fondi strutturali.
Azioni prioritarie per promuovere la cultura dell’impresa
Per dar vita a una comunità imprenditoriale forte e dinamica, si vuole cominciare con lo sviluppare lo spirito d’iniziativa e di rischio, superando un certo numero di pregiudizi esistenti nella società, nei nostri sistemi d’istruzione e negli ambiti istituzionali, che sono poco propizi allo spirito imprenditoriale e rivelano una scarsa consapevolezza dell’importanza di una cultura d’impresa. L’attività imprenditoriale
è un elemento vitale del tessuto socioeconomico di ciascuno Stato membro, ma le società europee non ne riconoscono ancora pienamente il valore sul piano professionale.
Semplificazione del contesto amministrativo
La lentezza e la complessità delle procedure di registrazione ostacolano e ritardano la creazione di imprese. Il costo annuale totale delle formalità amministrative a cui le imprese sono soggette in Europa è stimato in 200 miliardi di Euro, cifra che rappresenta fino al 3% del PIL totale
L’azione o l’insieme di azioni di più grande utilità per le imprese consiste nel semplificare il contesto amministrativo in cui esse operano.
La Commissione europea ha adottato alcune iniziative in questo campo. E’ stata creata recentemente una Task Force per la semplificazione del contesto delle imprese (BEST - Business Environment Simplification Task Force), che formulerà raccomandazioni destinate a migliorare il contesto in cui operano le imprese, individuando gli ostacoli di natura amministrativa e normativa che si oppongono allo sviluppo di una cultura dell’impresa.
Lotta contro i ritardi di pagamento
I ritardi di pagamento sono una delle cause di fallimento delle imprese ad hanno come conseguenza la perdita di numerosi posti di lavoro. Infatti, un fallimento su quattro, è dovuto a ritardi di pagamento. Sono soprattutto le nuove imprese a risentirne le conseguenze, in quanto dispongono di una liquidità limitata a una clientela ridotta.
Migliorare l’accesso al credito
Le difficoltà connesse all’accesso al credito sono una delle principali barriere allo sviluppo dello spirito imprenditoriale. I problemi più seri riguardano l’eccessiva dipendenza dagli scoperti bancari piuttosto che dai prestiti a scadenza fissa, l’incapacità di ottenere prestiti a tassi di interesse ragionevoli, il ricorso eccessivo al credito rispetto al capitale sociale e le difficoltà di raccogliere fondi propri. In conseguenza dell’insufficienza del capitale sociale ("equitiy gap"), sono poche le imprese a base tecnologica create in Europa e le loro prospettive di crescita sono ostacolate. Anche il capitale di rischio è sottovalutato in numerosi paesi europei rispetto agli Stati Uniti, in particolare per quanto riguarda il finanziamento iniziale di un’impresa.
A seguito del vertice di Lussemburgo sull’occupazione, la Commissione europea è stata invitata a presentare proposte relative alla creazione di nuovi strumenti finanziari di sostegno alle PMI, per un bilancio totale di 420 milioni di Euro. La Commissione ha proposto l’iniziativa a favore della crescita dell’occupazione, che comprende tre meccanismi complementari: lo sportello MET (meccanismo europeo per le tecnologie) per l’avviamento, l’iniziativa "Impresa comune europea" (ICE), il meccanismo di garanzia per le PMI.
Rendere i regimi fiscali più favorevoli
Il regime fiscale ha un ruolo essenziale nel contesto finanziario delle imprese. Attualmente esistono numerosi ostacoli di natura fiscale all’attività imprenditoriale, a tutti gli stadi di un’impresa, in particolare l’elevata imposizione delle retribuzioni, i costi amministrativi, sproporzionati per le PMI, della riscossione e del trattamento delle imposte e dei contributi sociali e i disincentivi fiscali per le imprese che scelgono il finanziamento tramite fondi propri anziché tramite il credito.
L’attuale regime IVA è complesso e difficile da gestire. La Commissione europea si propone di giungere a una semplificazione radicale per le PMI e in particolare per le giovani imprese, che più subiscono le conseguenze della complessità dell’amministrazione dell’IVA, secondo la proposta, figurante nel suo programma di lavoro, di introdurre un regime IVA comune basato sul principio dell’origine.
Riorientare e ridurre gli aiuti di Stato
La Commissione intende esaminare i criteri di autorizzazione degli aiuti. L’obiettivo è quello di promuovere sistemi che favoriscano effettivamente l’efficienza economica e l’occupazione. La Commissione metterà inoltre a punto un sistema di misura che permetta di valutare l’efficacia dei sistemi nazionali in termini di occupazione.
Dare impulso all’innovazione e all’acquisizione di nuove tecnologie
Occorre accrescere il numero e migliorare la qualità delle imprese di avanguardia, in grado di affrontare la concorrenza mondiale in settori economici a rapida crescita, quali la biotecnologia, la tecnologia dell’informazione, il commercio elettronico, la micromeccanica e le tecnologie ambientali ed energetiche. Troppo spesso, però, le imprese innovative trovano un ostacolo nella complessità del quadro normativo. Altri ostacoli comunemente incontrati dalle nuove imprese e dalle piccole imprese sono la mancanza di informazioni sulle nuove idee sviluppate nelle università e nei centri di ricerca, sulle possibilità di trasferimento delle tecnologie e sulla possibilità di accedere a programmi di assistenza. Inoltre, le "ecoindustrie" hanno un mercato potenziale enorme, ma le opportunità che esse offrono non sono conosciute in misura sufficiente.
Un altro strumento importante è l’incubatore di imprese. Nel quadro del terzo programma pluriennale a favore delle PMI, la Commissione europea promuove lo sviluppo di "incubatori", mettendo l’accento sulle PMI, tra l’altro con un’iniziativa intitolata "Incubatori di imprese - Le reti come strumenti per migliorare l’accesso delle PMI alla RST".
Stimolare lo spirito imprenditoriale nell’economia sociale
L’economia sociale rappresenta attualmente il 5% dell’occupazione totale; uno su cinque dei nuovi posti di lavoro è creato nel campo dell’economia sociale (cooperative, mutue, associazioni, fondazioni) e questo significa che il potenziale di crescita di questo settore è enorme.
Occorrono iniziative miranti a migliorare la formazione di quanti operano nel settore dell’economia sociale e a sviluppare una rete per la formazione nel "terzo settore", che rilasci appositi diplomi europei. La Commissione avvierà e sosterrà azioni miranti a identificare le pratiche migliori per incoraggiare lo spirito imprenditoriale nel settore dell’economia sociale e sosterrà la creazione di agenzie di sviluppo per assistere le imprese in via di costituzione, in particolare le cooperative. Un piano d’azione sarà elaborato conformemente alla comunicazione del 4 giugno 1997 "Promuovere il ruolo delle organizzazioni di volontariato e delle fondazioni in Europa".

CONCLUSIONE

Questa nostra Assemblea dovrà aprire una nuova stagione di dialogo dei popolari con il paese.
Vogliamo conoscere e farci conoscere.
Vogliamo che i cittadini di questo paese ci riconoscano per quello che siamo, persone serie, che non credono alle mode effimere che attraversano anche la politica, per nulla prigioniere né nostalgiche di un passato che è passato.
Vogliamo restituire alla politica la dignità che le compete, quella della responsabilità, e restituire al paese la politica di cui ha bisogno.
Chiediamo al paese di avere fiducia in sé, nelle sue risorse, nella intraprendenza e laboriosità dei suoi cittadini, nella solidità delle sue istituzioni, nella genialità di una nuova classe dirigente che sta emergendo nell’economia, nella finanza, nella cultura, nella politica.
Chiediamo ai giovani di farsi coinvolgere nel grande disegno di completamento dell’Europa, di appassionarsi a questa impresa di costruzione di una nuova patria che avviene per la prima volta nella storia con le sole armi della politica, di pretendere dai propri governanti un impegno coerente in questa direzione: noi popolari ci siamo, siamo persone serie.
Chiediamo agli italiani di aiutarci a rinnovare in senso federale l’architettura del nostro Stato: il federalismo non sarà concesso, sarà tale solo se sarà costruito nella fatica di un impegno delle comunità locali, di tutte le comunità locali.
Vogliamo ricostruire armonia, amicizia, convivialità, vivibilità nelle nostre città: vogliamo che tutti possano camminare tranquillamente per la strada, guardandosi in faccia senza timori e senza riserve, vogliamo che la gente torni a dirsi "buongiorno" e "buonasera".
Per ciò promettiamo di pretendere noi per primi dallo Stato di essere duro con i criminali, con quanti si sottraggono alla legalità della convivenza, ma vogliamo anche che nessuno si senta solo di fronte alla sua miseria e al suo disagio.
Vogliamo che nel nostro paese entri solo chi è autorizzato e, chi lo è, deve poter contare su una casa, una scuola, un tempio per il suo culto, che non siano i piazzali delle stazioni o dei porti delle nostre città.
Vogliamo che gli imprenditori riprendano a investire, qui, soprattutto nel nostro sud, guardando allo Stato e alla legge con minore diffidenza, sapendo anzi di contare sull’accoglienza dovuta a chi produce ricchezza e lavoro.
Vogliamo per i giovani una scuola accogliente, familiare, moderna, esigente e severa nel trasmettere sapere e nel pretendere virtù.
Vogliamo che i nostri giovani possano concludere il ciclo formativo all’inizio e non alla fine dei vent’anni, vogliamo che non sprechino tempo prezioso in attesa della chiamata per il servizio civile o militare, o dell’ammissione a concorsi, o dell’accesso al primo lavoro.
Vogliamo che possano progettare con fiducia e realizzare con tempestività la propria famiglia e la propria casa, possibilmente costruita con prestiti non onerosi.
Vogliamo che siano effettivamente liberi di fare figli, di dare vita, potendo contare su uno Stato premuroso e collaborante, che punta molte delle sue risorse al sostegno delle nuove famiglie, ai servizi per le nuove famiglie, alla qualificazione della scuola statale e non statale, soprattutto quella dell’obbligo, consapevole che le donne e gli uomini italiani del futuro li formiamo noi oggi, nei loro primi anni di vita.
Vogliamo rassicurare anche chi è più anziano e dirgli che non deve temere le leggi future poiché ciò che oggi riceve è ciò che gli compete e che nessuno potrà sottrargli; se domani sarà chiesto di lavorare un po’ più a lungo sarà anche perché lo Stato ha deciso di aiutare un po’ più i nostri figli.
Vogliamo dire alle donne che i popolari le considerano davvero il motore dei cambiamenti sociali di cui il paese ha bisogno. Oggi dopo la conquista di una dignità e una parità che hanno tardato troppi anni ad arrivare, dopo in particolare la conquista di una genitorialità consapevole, la donna e la coppia sentono ancora di più la gioia di dare vita e la responsabilità di assicurare a chi non ha chiesto lui di nascere un ambiente e condizioni di civiltà degni di essere vissuti; in questo senso siamo certi che la donna in primo luogo e i genitori in particolare sentono la responsabilità di coltivare maggiori attenzione e impegno per la politica.
Vogliamo continuare a cambiare l’Italia.
Poichè, lo ripetiamo, i popolari sono seri, vogliamo dire a tutti: su loro potete contare.


3/4/1999
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Tino Bedin