i-pp30

Occorre pronunciarsi su che tipo di federalismo
Due capisaldi popolari:
rispetto delle autonomie sociali
e solidarietà
Non basta attribuire competenze, occorre riconoscere indirizzi politici propri. Da approfondire le inmplicazioni cosstituzionali dell’Unione europea

di Franco Marini

Il termine "federalismo" non ha un significato preciso. Le esperienze storiche che si sono realizzate con questo nome sono molto diverse fra loro, sia per il modo con cui si sono formate, sia per il tipo di rapporti che intercorrono fra Stato federale e Stati federati. In passato, nel periodo di formazione e consolidamento degli Stati nazionali, il modo tipico di formazione è stato quello dell’unione fra gli Stati (Usa, Germania); attualmente, in un periodo in cui prevalgono le spinte autonomistiche, alcuni Stati, quando non giungono a frantumarsi (Jugoslavia, Unione Sovietica), si danno struttura federale più o meno marcata (Canada e Belgio), mentre i processi di unificazione si producono a livello più ampio, per far fronte ai problemi della globalizzazione ( Unione Europea).
In certi casi, poi, anche se non si dà allo Stato il nome di "federale", l’autonomia delle sue singole parti può essere più marcata di quella di uno Stato federale (un attento confronto fra l’attuale assetto istituzionale spagnolo e quello della Germania fa emergere profili di una maggiore disarticolazione nel primo rispetto al secondo, per il riemergere in Spagna di differenziazioni linguistiche e culturali, oltre che economiche, che sono pressoché assenti in Germania).
La conseguenza che si trae da queste osservazioni è che non ha senso essere a favore o contro il "federalismo" ma che occorre pronunciarsi sul tipo di federalismo che si vuole.
Il Ppi erede della tradizione culturale e politica del cattolicesimo democratico, si trova in una posizione avvantaggiata rispetto ad altri partiti per contribuirne a individuare una soluzione appropriata alle diverse esigenze alle quali si deve dare risposta.
I due nostri capisaldi sono: rispetto delle autonomie territoriali e sociali e solidarietà.
Le autonomie, per noi, sono quelle regionali, ma non meno, quelle comunali e delle province intese come enti di vasta area per la gestione dei servizi che richiedono tale dimensione.
Le autonomie territoriali devono, poi, rispettare le autonomie sociali non meno di quanto debba fare lo Stato.
Le autonomie devono essere vere: non devono esaurirsi nella quantità delle competenze; devono consentire scelte diverse, indirizzi politici propri. Siamo quindi contrari alle forme sempre latenti di imbrigliamento delle autonomie che spesso emergono anche ora in molte leggi o disegni di legge settoriali. C’è il rischio di una certa schizofrenia: da un lato si proclama in maniera enfatica il valore dell’autonomia, dall’altro la si nega nei singoli settori.
Le autonomie devono quindi consentire una differenziazione: non si può volere insieme autonomia e uniformità. Non vogliamo impedire alle zone più sviluppate del Paese di svilupparsi ulteriormente, con tutta l’energia che sanno esprimere; vogliamo però ribadire i vincoli di solidarietà con le altre zone dell’Italia e ormai anche dell’Europa.
E qui viene il secondo dei nostri capisaldi, quello della solidarietà. La funzione principale che hanno svolto gli Stati nell’ultimo secolo è stata quella di redistribuzione della ricchezza e di promozione dello sviluppo.
Questa funzione non corrisponde a uno specifico articolo della Costituzione ma a tutti gli articoli nel loro insieme e soprattutto a quelli della prima parte che, per opinione comune, resterà invariata. Siamo anche noi dell’idea che il welfare vada rivisto nelle esagerazioni e nei burocratismi che aveva determinato negli ultimi due decenni, ma non siamo affatto dell’idea che debba essere messo radicalmente in discussione.
Per realizzare politiche di sviluppo e di redistribuzione della ricchezza è necessario che lo Stato mantenga un certo numero di competenze diverse da quelle tradizionali dello Stato liberale che corrispondevano a un livello molto basso di espansione della sfera pubblica.
Il testo approvato dal Consiglio dei ministri, da un lato riconosce le autonomie in modo marcato, dall’altro mantiene allo Stato una funzione di sviluppo e di riequilibrio, risponde alle linee generali alla nostra impostazione (rivedendo, tra l’altro, alcune radicalizzazioni che v’erano state negli emendamenti approvati alla Camera al testo della Bicamerale).
Alcune formulazioni possono essere ancora meglio esaminate e corrette, ma sbaglierebbe chi pensasse a questo testo come la base di partenza per un ulteriore impoverimento dello Stato.
C’è ancora bisogno dello Stato italiano e questo non può essere la risultante occasionale di due sottrazioni di competenze, verso l’Europa e verso i livelli locali. La funzione di sviluppo e di redistribuzione della ricchezza non può essere efficacemente svolta a livelli troppo piccoli, né trova almeno per ora corrispondenza nelle funzioni esercitate dall’Unione europea.
La prospettiva europea e le sue implicazioni sul testo costituzionale devono forse essere meglio approfondite. L’Europa è una Unione di Stati, il che vuol dire che lo Stato è uno Stato, membro di una Unione di Stati.
Questa caratteristica deve essere tenuta presente sia nel disegnare la distribuzione delle competenze, sia nel senso di rendere possibile una efficace azione dello Stato all’interno dell’Unione. E’ questo l’unico modo che abbiamo per essere in qualche modo protagonisti a fronte della globalizzazione. Solo l’intero sistema Italia, articolato nel suo interno per rispettare e potenziare tutte le particolarità che lo formano e riportato a sintesi, può consentirci di svolgere un ruolo efficace in Europa e quindi nel mondo.
Proprio la globalizzazione rafforza il valore delle radici, sia di quelle locali, sia di quelle della Patria (la terra dei Padri), come valore di una specificità aperta al mondo.


15 maggio 1999
webmaster@euganeo.it
home page
il collegio senatoriale di
Tino Bedin