Un nuovo spettro si aggira sotto i cieli della nostra fragile e sospesa democrazia italiana
Contro il “purismo democratico”
Recuperare un testo straordinario, scritto nel 1995, a ma potentemente attuale ancora: “Il «crucifige!» e la democrazia” di Gustavo Zagrebelsky
Un nuovo spettro si aggira sotto i cieli della nostra fragile e sospesa democrazia italiana: il “purismo democratico”. Puristi democratici sono quanti, utilizzando gli strumenti che l’universo della rappresentanza politica mette a disposizione, li curvano in senso al contempo iper e antidemocratico. Producendo, di fatto, una caricatura della democrazia più che un suo rafforzamento.
A questo proposito vale la pena recuperare le pagine di un testo straordinario, scritto nel 1995, agli inizi della Seconda Repubblica ma potentemente attuale ancora a quasi vent’anni di distanza: “Il «crucifige!» e la democrazia” di Gustavo Zagrebelsky. Elaborando una suggestione kelseniana contenuta nell’ultimo capitolo di “Essenza e valore della democrazia” (1920), inscritta entro la contrapposizione tra assolutismo e relativismo etico, Zagrebelsky sviluppa un’analisi originale del processo a Cristo e individua tre diverse declinazioni del gioco democratico: la democrazia dogmatica, fondata sulla verità assoluta, che non conosce pluralismo né di opinioni né di argomenti; quella scettica, basata sull’accettazione rassegnata della realtà che induce alla disillusione e al disincanto; infine, quella critica, la democrazia, cioè, che Zagrebelsky propone come alternativa positiva alle prime due, ma ambiziosa e assai difficile da realizzare.
Il ragionamento di quel libro, su cui sarebbe opportuno tornare a riflettere in modo sistematico nelle sedi di elaborazione politico-culturale, dischiude una prospettiva di lettura interessante quando applicata allo stato di salute della nostra Repubblica democratica. Soprattutto, contribuisce a mettere a fuoco la consanguineità tra le due degenerazioni più evidenti che essa ha subito nel corso dell’ultimo ventennio. Da una parte, abbiamo avuto quanti (perché non si è trattato di uno soltanto!) ci hanno propinato una versione populistico-plebiscitaria del rapporto tra governanti e governati, utilizzando la categoria del “popolo” contro quella del “partito”, alla ricerca di un’approvazione unanime in sede politica ancor prima che istituzionale – cosa di per sé gravissima, al di fuori di ogni logica costituzionale e destinata a rimanere, nel migliore dei casi, pura fictio. Dall’altra, si è sviluppata una democrazia individualistica, fondata sul culto dell’individualismo anziché sul rispetto dell’individualità, che ha scelto di fare a meno della politica partecipata e ragionata e ha preferito la strada della politica delegata e “di pancia”. Il primo fronte è quello dei democratici dogmatici, che credono non nel pluralismo delle opinioni ma nell’ontologia della verità – unica e incontrovertibile – scolpita dal leader e la cui eco è raccolta e propagata dal vertice alla base dai triumviri o responsabili di turno (quando vi sono). Il secondo è quello dei democratici scettici, che in nome di una Realpolitk talvolta cinica, talvolta del tutto apatica, ha ritenuto e ritiene che sia superfluo chiedere alla democrazia più di quanto essa abbia già dimostrato di saper dare: governi democraticamente eletti e un potere legislativo che produce leggi ad uso e consumo dei cittadini.
I primi, dietro la pretesa di parlare in nome del popolo per il popolo, hanno parlato e agito in vece del popolo; hanno perpetuamente ricercato l’endorsement del popolo per avere il popolo muto; agli uomini e alle donne che si associano in partiti, movimenti e associazioni hanno sostituito una massa unidimensionale – fondata sullo sguardo passivo e sull’acclamazione, sul sì/no gridato nelle piazze o attraverso lo share e i sondaggi. È una dimensione – bisogna essere netti su questo – di erosione costante e mirata di alcune delle conquiste più importanti sul piano della cultura politico-istituzionale consegnate all’Italia dall’esperienza della Resistenza e dei Padri costituenti: Bernard Manin l’ha definita “democrazia del pubblico”, Colin Crouch “postdemocrazia”, Zagrebelsky “sondocrazia”.
I secondi, al contrario, si sono accontentati di un orizzonte minimo della vita democratica – si va all’urna (quando la politica lo chiede e se ne ha voglia), si versa il proprio voto e si torna a casa. Hanno de-colonizzato la sfera politico-pubblica e hanno preferito rifugiarsi o in un individualismo rapace, riflesso dell’ideologia neoliberista della quale in Italia anche le sinistre per un certo periodo hanno creduto fosse opportuno fornire una robusta iniezione, o in un collettivismo gregario, che talvolta ha espresso la sfiducia e il disincanto verso le istituzioni dello Stato creando comunità immaginarie, rivisitando in forma più selvatica l’antropologia dell’uomo buono di Rousseau non corrotto dagli istituti della civilizzazione, proiettando “la nostra gente” tanto contro “la nazione”, una e indivisibile, quanto contro “il partito” e i “partiti”, tutti opachi e corrotti. Ma, pur trattandosi in parte di temi che già Minghetti aveva sollevato nel terzo decennio della nostra storia unitaria, tra di loro non vi è mai stato un Minghetti. E il boomerang è presto tornato indietro a squarciare il velo dell’utopia.
Sia i democratici dogmatici sia quelli scettici hanno rifiutato i corpi intermedi e gli istituti della mediazione; hanno svuotato la democrazia rappresentativa del dissenso che solo può nascere dal pluralismo e del conflitto delle idee che solo può derivare dall’espressione autentica del dissenso. Entrambe queste caricature della nostra forma di governo hanno calpestato quella che Hegel definiva la Gliederung, vale a dire la “membratura”, articolata e complessa, della società civile nel suo rapporto con lo Stato.
I “democratici puristi” di oggi sintetizzano i tratti più eccentrici di entrambe le distorsioni della democrazia moderna. Sono scettici e dogmatici al tempo stesso. Sono scettici circa la capacità residua dei partiti politici di creare rappresentanza. Sono dogmatici perché abitualmente derivano il proprio pensiero dall’“elaborazione” di un uomo solo e hanno il bisogno esistenziale di un idolo polemico per rimanere in piedi. I democratici puristi, nella loro ambizione a essere democratici autentici, sono in realtà democratici incompleti: come ha spiegato in modo lucido Giovanni Sartori sul “Corriere della Sera”, mettendo sotto lente la sua fenomenologia più rumorosa, essi hanno una progettualità orizzontale ma mancano di quella verticale, che dalle elezioni arriva a costruire lo Stato. I democratici puristi esprimono insofferenza verso i partiti e verso lo Stato. Spesso sono ben più vicini ai populisti dogmatici che agli individualisti scettici: muovono dal principio vox populi, vox Dei, e ne fanno un dogma.
Da questo punto di vista, la “democrazia critica” tracciata da Zagrebelsky può fornire un antidoto importante. Essa non presuppone un popolo omogeneo e informe o frutto della sommatoria di atomi di egoismo. Richiede, al contrario, una cittadinanza che vive e pulsa di opinioni, idee, giudizi; che ragiona, dissente, legge, discute, riflette, si espone, vive di argomenti in perpetuo divenire; è una democrazia che non si accontenta di fugaci incursioni nella creazione della politica istituzionale versando a intervalli più o meno regolari il proprio “sasso di carta” (bellissima espressione di Engels) nell’urna – una visione, questa, minimalista e depotenziata del gioco democratico. La democrazia critica è una democrazia del limite: mette al centro del proprio universo quotidiano il popolo non per le sue presupposte qualità metafisiche (vox populi, vox Dei), ma per la sua fallibilità (vox populi, vox hominum), in base a un’interpretazione della rappresentanza politica come processo di lunga durata che lascia la dialettica governanti/governati perpetuamente aperta a revisioni. Non attraverso il grido acclamante o il plebiscito di piazza e/o di telecomando. Ma attraverso la partecipazione ragionata alla vita democratica.
«Rafforzare le istituzioni, darsi tempo, proteggere le differenze»: così Zagrebelsky definiva nel 1995 la missione nel lungo periodo della sua “democrazia critica”, invitando tra l’altro a sottrarre il referendum e le sue implicazioni alla retorica populistico-plebiscitaria. Contro la reductio ad unum del potere istituzionale e dell’opinione democratica, la democrazia critica ha il compito, allora come oggi, di squadernare il pluralismo, dando ad esso voce politica ancor prima che istituzionale attraverso i corpi intermedi. Tra i quali, in primo luogo, i partiti. Se abbiamo intenzione di prendere sul serio Bobbio, che già nel 1958 ammoniva che non era più tempo di essere «democratici ottimisti» bensì «democratici sempre in allarme», abbiamo il dovere, al termine di questo ventennio, di fare un’analisi seria, consapevole e autocritica per capire cosa sono diventati e cosa possono essere i partiti politici. Per capire se il destino della nostra democrazia sia legato ancora in un sol nodo a quello dei partiti. Per evitare che a ridisegnare la democrazia italiana dei prossimi decenni sia, dopo il berlusconismo, il purismo democratico.
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