Perché i laici cristiani sono assenti dal dibattito politico?
Perché la scomparsa della Dc ha trasformato la Chiesa nell’utilizzatrice diretta dei voti dei fedeli
Interrogato sulle ragioni per le quali il laicato cattolico oggi sembra tacere, senza reagire alle invasioni di campo della Chiesa, ho così risposto: purtroppo a tacere oggi non è solo il laicato cattolico – salvo eccezioni – ma è l’Italia tutta – salvo eccezioni – di fronte allo scempio che l’attuale classe politica di governo sta infliggendo al Paese; c’è una società intera che subisce e che tace, senza che prenda forma una reazione adeguata volta a salvare le istituzioni democratiche e la stessa anima del Paese corrotta dal nuovo fascismo.
C’è una crisi della laicità che non è solo dei cattolici ma è anche della società e della cultura denominata laica. Ciò dipende dal fatto che la laicità, nella sua accezione moderna e nella sua realizzazione politica come Stato laico e democratico, non è sufficientemente fondata. La laicità non è laicamente fondata – cioè basata su ciò che c’è di più umano nell’uomo, ovvero sulla sua libertà – perché storicamente è stata costruita per sottrazione alla religione (“come se Dio non ci fosse”) anziché sullo scioglimento del vincolo imposto dal sacro. Il sacro non è l’equivalente della religione, e nemmeno della fede; non basta uscire di chiesa o mettere tra parentesi la fede per uscire dal sacro.
Esso è l’equivalente di un Dio antropomorficamente concepito come “tremendum et fascinans” (come ne “Il sacro” di Rudolf Otto), più tremendo che affascinante, che l’uomo può controllare e arginare solo per mezzo dei sacrifici. Il sacro pertanto è ciò che è riservato e messo da parte per Dio, e che è trasferito perciò dalla sfera umana a quella divina, dal potere umano a quello divino. Il sacro, precisamente in ciò che lo contrappone al laico, è il vincolo di ciò che non è disponibile, che è sottratto all’uso comune e alla responsabilità comune. La fede è invece la modalità non sacrale e liberante della religione, che nella forma cristiana giunge all’incorporazione del divino nella condizione comune. La religione pertanto deve scegliere tra il veicolare la libertà della fede o presidiare il legame (“religio”) del sacro.
Il cristianesimo nella sua fondazione, benché assai meno nel suo corso storico, ha significato la decostruzione della religione del sacro (come era percepita e praticata nell’ebraismo) e il lieto annuncio della religione della libertà, originata da quell’inaudito gesto laico di Dio che è stato l’incarnazione. Staccare il cristianesimo dalla laicità vuol dire staccarlo da se stesso. Perfino nella sua più grande festa religiosa – la Pasqua – si manifesta la natura laica del cristianesimo, nella sua rappresentazione del divino. Che cosa c’è infatti di più laico di un sacrificio offerto non nel tempio, ma fuori dello spazio sacro del tempio, perfino fuori dal “cortile dei Gentili” (che oggi si vorrebbe ripristinare), fuori dalle mura, fuori dalla città, fuori dal campo?
Che cosa c’è di più laico di un sacrificio che non è un sacrificio, ma un morire per amore? Che cosa c’è di più laico di una morte come quella di Gesù subita per essersi opposto all’intero ceto sacerdotale, per aver annunciato la distruzione del tempio, per aver violato il sabato, per aver rimandato libera l’adultera, per aver praticato e predicato l’amore dei nemici, per aver tolto la maledizione allo straniero e negato la sua esclusione dalla società degli eletti, per aver “mangiato la Pasqua”, come dicono i Vangeli, non con l’agnello sgozzato del sacrificio di sangue – che ancora sempre ritorna sulle nostre tavole – ma con il pane e il vino della convivialità e della comunione?
Dunque se una festa religiosa come la Pasqua è una festa laica, anche un festival della laicità come quello di Reggio Emilia non ha necessariamente un carattere antireligioso e antiecclesiale, e dunque la polemica preventiva di parte ecclesiastica contro di esso non ha ragione di essere. Tuttavia il difetto di laicità della cultura laica sta nel fatto che essa viene fondata – ripetendo il suo vizio d’origine – per differenziazione rispetto alla religione e alla Chiesa, in una sorta però di riduzionismo piuttosto che di un trascendimento.
Non si tratta solo di incidenti di percorso, se Carl Schmitt ha potuto dire che i principali concetti politici dell’Occidente sono concetti teologici secolarizzati; e se, come ha mostrato lo storico Paolo Prodi nel suo libro “Il sovrano pontefice”, le principali istituzioni politiche e statuali dell’Occidente hanno avuto il loro prototipo e il loro modello nelle istituzioni degli Stati della Chiesa; né a ciò è sfuggita la Riforma se le Chiese che ne sono scaturite hanno dato luogo agli Stati confessionali.
Cristiani e laici dovrebbero piuttosto fondare la laicità non in un corpo a corpo con l’ecclesiastico, ma in una antropologia non tributaria del sacro; quella antropologia che nel Concilio Vaticano II ha portato a identificare nella libertà la “dignitas” stessa dell’uomo e che nella tradizione monastica identifica lo specifico umano (ovvero l’immagine di Dio nell’uomo) non nella ragione, sia pure superiore a quella di tutte le altre creature, ma nella libertà. Altrimenti c’è il rischio di sacralizzare il secolare trasferendo a cose profane connotati divini: la trascendenza del Mercato, l’onnipotenza del denaro, l’inviolabilità e l’immunità della persona del sovrano, l’assolutezza del diritto, il corpo mistico del popolo elettore, che non sono affatto cose laiche, ma grottescamente sacrali.
Ma perché il laicato cristiano tace, non fa uso della sua libertà?
Il laicato cristiano è oggi assente dalla lotta politica per una ragione strutturale. Certamente ci sono singoli cristiani nelle diverse parti politiche, ma non c’è un contributo della laicità cristiana come tale alla vita politica. La gestione del rapporto con la politica è oggi direttamente esercitata dalla Chiesa, senza mediazioni laicali e nemmeno cinghie di trasmissione di partiti o gruppi clericali. Ci sono varie ragioni di questo: una era individuata dall’ex presidente della Corte Costituzionale, il compianto Leopoldo Elia, in un discorso del 2007 al Convegno annuale dei costituzionalisti.
Tale ragione stava nel vuoto che la scomparsa della DC aveva lasciato aprendo uno spazio alla Chiesa come gruppo di pressione, ma soprattutto stava nella apparizione in sua vece di un partito più a destra della DC, “che costituisce di per se stesso una tentazione continua ad utilizzare i suoi voti” realizzando uno scambio tra la legittimazione offerta dalla Chiesa e le obbedienze prestatele dal partito; obbedienze tanto più facili grazie al “relativismo” del governo, per il quale tutte le scelte politiche e legislative vanno bene purché servano a mantenerlo al potere: per la Libia e contro la Libia, per l’Europa e contro l’Europa, per la guerra e contro la guerra, per il nucleare e contro il nucleare, e così via; spregiudicatezza che giunge fino a far promettere a Berlusconi che finché sarà lui a governare mai in Italia sarà ammessa altra famiglia che quella tradizionale, promessa poco coerente col fatto che egli personalmente mantenga un harem: cosa che alla Chiesa dovrebbe pur provocare qualche sussulto.
Tuttavia, al di là di questo protagonismo diretto della Chiesa, una azione politica dei cristiani non è possibile se dalla Chiesa vengono dichiarate non disponibili (o non negoziabili) una serie di questioni legislative che attendono di essere regolate attraverso le decisioni del governo e del Parlamento. Se tali questioni sono disponibili, come tutte le altre, alla decisione politica delle forze politiche e dei partiti, ma non disponibili per i cattolici, questi, a parte pur meritorie temerarietà personali, non possono esercitare pubblicamente la loro responsabilità politica, perché subito sarebbero sconfessati e additati come non interpreti delle istanze cristiane.
Una situazione analoga a quella che si produsse in Italia prima col “non expedit”, poi con la comparsa del Partito Popolare italiano, il quale poté svolgere una vigorosa azione politica laica, anche di contrasto al fascismo, al prezzo della scelta lucidamente compiuta da Sturzo, di impegnare il partito su tutto tranne che su quelli che allora venivano chiamati “i diritti imprescrittibili della Santa Sede”, che erano le rivendicazioni temporali della Chiesa (corrispondenti ai “principi non negoziabili” di oggi), di fronte a cui quel partito di cattolici restava neutrale. Questa scelta salvò l’aconfessionalità del partito, ma non bastò ad assicurargli la sopravvivenza quando la Chiesa fra il PPI e il fascismo scelse quest’ultimo, e Sturzo dovette andare in esilio. In ogni caso oggi sarebbe impensabile che dei politici cattolici si estraniassero dalle decisioni circa questioni vitali di pubblico interesse su cui la Chiesa avesse steso il suo braccio.
Dunque se non si risolve questo problema non c’è spazio per un’azione cristiana in Italia; e non c’è neanche la possibilità che i membri della comunità cristiana, anche prima dell’azione politica, contribuiscano al discernimento dei valori in gioco e possano essi stessi farsi una coscienza di ciò che sarebbe più giusto fare nelle condizioni date. Stabilire, in nome dei principi irrinunciabili, una sfera dell’indecidibile su questioni che al contrario nel dibattito pubblico sono largamente controverse, impedisce alla comunità cristiana di misurarsi con questi problemi all’interno di un’esperienza di fede e in forza di una riflessione cristiana. Perché non tutto è sempre così sicuro.
Fratel Carlo Carretto, il mistico ex presidente della GIAC, spese una notte in preghiera per decidere alla fine di votare “no” nel referendum per l’abrogazione del divorzio. E prese la sua decisione, come scrisse, non perché fosse venuta meno la sua adesione alla indissolubilità del matrimonio, ma perché mosso dall’amore e dalla compassione per gli emigrati italiani nelle fabbriche e nelle miniere della Francia o della Germania, che avendo subito, anche per questo, lo sfascio della famiglia formata in Italia, erano condannati a vivere esuli senza famiglia e senza amore in letti deserti. Ma anche diversi valori e sensibilità cristiane vengono a confliggere quando un legislatore deve decidere se debba farsi pagare alle donne col carcere o con la clandestinità sanitaria il principio dell’aborto come reato o se non debbano invece instaurarsi alternative più umane e forse anche più efficaci alla sanzione penale; e anche un discernimento cristiano viene chiamato in causa quando la difesa militante e perciò inevitabilmente settaria della vita può giungere fino a fare della condizione biologica dei gameti e degli embrioni al momento della vita nascente o della sopravvivenza vegetativa al momento della vita che muore, dei feticci che con il loro chiasso coprono l’annuncio cristiano della vera vita, della vita che non deve essere trattenuta ma donata, della vita che seminata nella morte rifiorisce nella resurrezione.
Mi è stato poi chiesto se così ragionando e riflettendo cristiani come me o come Giovanni Franzoni abbiano possibilità di parlare e di farsi ascoltare nella Chiesa.
In effetti noi parliamo ed anche ci ascoltano, così come noi stessi dobbiamo ascoltare e capire le posizioni degli altri. Ma per la verità per molti anni ed anche ora il vero impedimento alla parola e all’ascolto noi l’abbiamo trovato non negli ambienti cristiani, che sono assai variegati, ma nella stampa nelle televisioni e nelle accademie laiche che al confronto con i cristiani liberi e critici sembrano preferire il vecchio caro rapporto conflittuale ma in definitiva concordatario con la Chiesa gerarchica e con i suoi fedeli, credenti o non credenti che siano, e perciò rigorosamente limitano la cerchia dei loro interlocutori cattolici.
L’intervento è stato letto da Raniero la Valle nella giornata conclusiva del “Festival della laicità” di Reggio Emilia, organizzato dalla rivista Micromega. Si è trattato di un incontro del pubblico con l’autore di questo testo e con Giovanni Franzoni sul tema “Quale laicità per quale fede”.
|