RASSEGNA STAMPA

PiùVoce.net
1 settembre 2010
Savino Pezzotta

La debolezza politica dei cattolici si vede già nella formazione delle leggi
Non rassegnarsi all'insignificanza

Seguo sempre con attenzione quanto si pubblica e si discute su “Piùvoce” e soprattutto m’intriga la sua vocazione a essere luogo di discernimento comunitario tra cattolici. Vorrei pertanto usufruire di questo spazio per portare un contributo sul tema della presenza politica dei cattolici in Italia. Come tanti di noi ho vissuto il mese di agosto con angoscia e turbamento e mai avrei pensato che il dibattito politico potesse arrivare così in basso. Sono rimasto anche colpito dall’accoglienza riservata a Gheddafi. Da cristiano mi sono sentito offeso e soprattutto impotente.
Questi fatti ci obbligano a riflessioni attente e puntuali sul significato della presenza politica dei cattolici in Italia, perché sono il segno di un degrado morale e culturale che si dovrebbe cercare di fermare o, per lo meno, contenere. Ma occorre uscire dagli schemi che hanno caratterizzato questi quindici anni in cui i cattolici hanno discusso se stare con Berlusconi o con Prodi - Veltroni. Ci siamo appassionati, ma tutto ciò non regge più, anzi, credo abbia contribuito a rendere debole e a tratti insignificante la presenza politica dei cattolici italiani.
Certo, i cristiani impegnati in politica hanno cercato di agire e di essere presenti sui grandi temi della vita, della famiglia, del lavoro e altro, ma senza riuscire ad essere incisivi perché sempre ha predominato l’esigenza di mediazione interna agli schieramenti. Nemmeno hanno aiutato le continue critiche general generiche alla politica, come se tutti fossero uguali e agissero allo stesso modo. Così non si aiuta il discernimento.
A volte ho l’impressione che nel nostro mondo e anche in una parte della gerarchia, ci sia un timore a essere precisi sulle singole responsabilità per non essere accusati di schieramento. Si preferisce il discorso generale che mortifica coloro che giorno dopo giorno si impegnano con attenzione e si contribuisce anche a ridurre la morale in moralismo. Sul degrado della politica, sulla corruzione, sul malaffare, sulla produzione normativa ci sono responsabilità precise. Non si può dire che vogliamo favorire un governo solidale e umano dell’immigrazione e dell’accoglienza e poi tacere o lasciare a pochi l’obbligo della denuncia di chi produce una tolleranza giustificatrice verso atteggiamenti discriminatori. Capisco le prudenze e le attenzioni verso un radicamento territoriale, ma bisogna anche vedere come si persegue questo radicamento. Basta guardare qualche delibera di giunta comunale per trovare i germi della discriminazione. Inveire contro corruzione e malaffare ma evitare nomi e cognomi non serve a molto, se non a rivendicare: “l’ho detto”.
Con questi atteggiamenti si finisce per contribuire ad alimentare il discredito verso la politica e indurre i cattolici a chiamarsi fuori, rafforzando così il disimpegno politico e il maggior partito italiano formato da coloro che non si recano più a votare.
Il moralismo di molte posizioni ha un’altra ricaduta politica che non bisogna sottovalutare: la diaspora dei cattolici. La distinzione tra diaspora e pluralismo va sottolineata, soprattutto oggi che avvertiamo con non poca sofferenza il determinarsi di una diluizione che sempre più si avvicina all’insignificanza della presenza dei cristiani in politica. Quello che mi preoccupa - senza offesa per nessuno e dando atto all’impegno dei singoli - è la modestia dell’influenza del pensiero cristiano sulla formazione delle leggi, sulla progettazione del futuro unitario dell’Italia, sulla politica europea e internazionale e sulla quotidianità dell’amministrare. Da parlamentare a volte m’interrogo se valga più la presenza in Parlamento o l’impegno su campi e terreni più vicini alla mia esperienza sociale e sindacale. Lo dico anche pensando alla debolezza del rapporto con le associazioni cristiane nelle quali ho militato, quasi che l’impegno politico abbia creato una cesura, un distacco. Eppure come parlamentari cristiani, indipendentemente dalla forza politica cui aderiamo, avremmo bisogno, nella reciproca autonomia, di rapporti più costanti o di sollecitazioni più decise, soprattutto quando si devono affrontare certe deliberazioni o progettazioni che non sempre sono conformi ai principi della Dottrina sociale della Chiesa.
Assodato che evitare il crescere della diaspora non significa mettere in discussione il pluralismo dell’impegno politico dei cattolici, mi domando se si debba rinunciare a una presenza politica di cattolici italiani in forma partito in cui il riferimento all’ispirazione cristiana sia chiaro ed evidenziato, quasi che questa ipotesi sia una forma di neointegralismo, che per la verità - in spirito di difesa - vedo sorgere più nelle “correnti o tendenze cattoliche” presenti nei partiti maggiori.
Dopo quindici anni di seconda repubblica è forse arrivato il momento di interrogarci se non sia utile avere nel Parlamento e nel Paese una forza politica che abbia e proponga una visione chiara e formata dall’ispirazione cristiana sui problemi che hanno fondamentale rilevanza per i cattolici: questioni bioetiche, famiglia, matrimonio, scuola, immigrazione, disagio sociale, povertà, lavoro ed economia civile, difesa dell’infanzia e della parità uomo donna. Questo non nega il valore e la necessità della mediazione, del dialogo, del confronto convergente e della laicità, anzi, dà corpo a questi elementi e potrebbe essere utile anche per i cattolici che hanno scelto di militare in altri contenitori politici. Conosciamo le difficoltà che molti vivono quando devono confrontarsi all’interno di uno stesso partito con una concezione liberista, populista, localista e post-comunista (il termine è infelice, ma non ne trovo uno migliore visto che quello social-democratico non è molto gradito). Quindi una presenza di chiara ispirazione cristiana potrebbe essere utile anche per far germinare quelle mediazioni parlamentari in cui l’etica cristiana non sia obnubilata. Ma anche coloro che si dichiarano cristianamente ispirati devono essere capaci di innovazione, di coerenze continue, di darsi una dimensione nuova.
Non possiamo dimenticare che politici di statura morale e politica come De Gasperi, Moro - per non parlare di cattolici eminenti come Giorgio La Pira, Igino Giordani, Lazzati, Lodovico Montini, Giulio Pastore e tanti altri, alcuni dei quali ho avuto la fortuna di conoscere - crebbero politicamente in un partito in cui, nonostante i tanti tradimenti, l’ispirazione cristiana aveva un valore significativo e importante. I nostri Pastori - dal Santo Padre ai Vescovi - chiedono incessantemente di contribuire alla formazione di una nuova classe dirigente di cattolici per il Paese. Discutiamo allora di come l’ispirazione cristiana si concretizza e delle forme con cui ci si organizza.
In politica una delle debolezze che i cattolici si portano dietro e che fu una delle cause della fine della Dc, è la scarsa attrezzatura culturale. Non vorrei essere equivocato; so bene che esistono fondazioni, centri culturali, scuole di formazione alla politica a cui partecipo con passione. Ci sono l’insegnamento del magistero ecclesiale, i convegni, le settimane sociali, un patrimonio di idee e proposte forti e interessanti. Ciò che a mio parere manca è la traduzione della visione cristiana in disegni di legge che per il loro valore umano e sociale possano ottenere un consenso trasversale. La debolezza culturale molte volte lascia spazio a culture politiche che da destra e sinistra si ispirano al laicismo di matrice illuministico-radicale che poco hanno a che fare con l’antropologia cristiana e il personalismo solidale cristiano.
Non sono in grado oggi, nonostante il mio impegno, di prefigurare con chiarezza il futuro della presenza politica dei cattolici italiani, ma questo non mi esime dal pormi e dal porre domande, di interrogarmi e di interrogare. Vorrei che lo facessimo tutti con tanta libertà, senza continuare a rimproverarci gli errori che nel passato ognuno di noi ha compiuto, ma volgendo lo sguardo al futuro, coscienti dell’essenzialità di questa presenza per il nostro Paese e per la Chiesa che amiamo. Mai come nell’ora presente occorre esercitare l’impegno politico con “i fianchi cinti”, disponibili a partire, ad attraversare il deserto per non restare prigionieri del Faraone. Il tema di fondo è come non rassegnarsi all’insignificanza e alla debolezza. Non è solo una questione di numeri, di posti, di ruoli che pure in politica hanno un significato, ma di qualità della presenza che è fatta di competenze ma anche di una passione civile, alimentata da una ricerca di spiritualità e di pensiero. Alla politica del fare, al pragmatismo senz’anima, occorre presentare una dimensione della politica sorretta da un pensiero, da una chiara visione antropologica, perché oggi più di ieri siamo chiamati, pur con le nostre debolezze, a resistere alla potenza del denaro, dell’immagine e del potere per il potere.
Occorre farlo con la libertà che è propria del cristiano.

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2 settemnbre 2010
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