Giovani, che avevano per padri i combattenti della seconda guerra mondiale e per nonni i combattenti della Grande Guerra, stavano crescendo in pace e intuivano che l'individualismo competitivo, sul quale si stava costruendo il benessere, poco si preoccupava della giustizia e alla fine poco avrebbe avuto a cuore la libertà. Non è un caso se all'individualismo il Sessantotto oppone i "collettivi" (anche se questi poi non si rivelarono grandi luoghi di libertà).
Non guardano alla Luna ma alle persone. Aldo Moro, nel lucido discorso del 21 novembre 1968 al suo partito, ce li propone così, quei giovani studenti: "Nel profondo, è una nuova umanità che vuole farsi, è il moto irresistibile della storia. Di contro a sconcertanti e, forse, transitorie esperienze c'è quello che solo vale ed al quale bisogna inchinarsi, un modo nuovo di essere nella condizione umana. È l'affermazione di ogni persona, in ogni condizione sociale, dalla scuola al lavoro, in ogni luogo del nostro Paese, in ogni lontana e sconosciuta Regione del mondo; è l'emergere di una legge di solidarietà, di eguaglianza, di rispetto di gran lunga più seria e cogente che non sia mai apparsa nel corso della storia. E, insieme con tutto questo ed anzi proprio per questo, si affaccia sulla scena del mondo l'idea che, al di là del cinismo opportunistico, ma, che dico, al di là della stessa prudenza e dello stesso realismo, una legge morale, tutta intera, senza compromessi, abbia infine a valere e dominare la politica, perché essa non sia ingiusta e neppure tiepida e tardiva, ma intensamente umana".
Più che guardare alla Luna (è del 20 luglio 1969 il primo allunaggio umano con la missione Apollo 11), il Sessantotto guarda alla persona, ci suggerisce Aldo Moro: quella generazione vede infatti più futuro in una marcia per i diritti dei vietnamiti che in una missione spaziale.
La sintesi è certamente insufficiente e potrebbe diventare fuorviante, se non integrata con la complessità di un tempo della storia contemporanea, che non è stato l'interruzione brusca e inaspettata di un periodo ordinato e pacifico e neppure complessivamente il motore di avviamento di un processo destinato a continuare nel tempo. Piuttosto è un capitolo di una storia di trasformazioni e involuzioni generate dalla "pace forzata" che l'umanità si era imposta nella seconda metà del secolo scorso. La sintesi è del resto impossibile perché il Sessantotto non è stato uno solo, né nel mondo né in Italia.
La chiave di lettura che Aldo Moro individua, "l'affermazione di ogni persona", consente comunque di rispondere a molti interrogativi.
Uno riguarda la dimensione del Sessantotto: come sia stato possibile che una componente del tutto minoritaria della comunità, quella degli universitari, "incendiasse" il mondo. È successo che il protagonismo di ogni persona ha fatto diventare alcune rivendicazioni studentesche un'esigenza di una generazione. Il Sessantotto è stata la prima e finora unica rivolta generazionale della storia: questo non fu allora un limite, anzi ne moltiplicò gli effetti sia in quantità che in qualità; fu anche un moltiplicare nel tempo dei contenuti e degli effetti, perché quella generazione ha avuto un lungo futuro nel quale proiettarsi.
La resa di fronte alla reazione. Nella prospettiva della centralità della persona, c'è un'altra domanda che possiamo più agevolmente affrontare, senza pretendere di esaurirne le risposte: come mai il Sessantotto, come stagione di contestazione attiva, sia finito quasi subito? Meglio: come mai non avesse in sé la forza di sopravvivere alla reazione?
Il 1968 è nell'immaginario della storia l'esplosione della rivolta contro le classi dirigenti a livello planetario, la ribellione contro le gerarchie, la rottura dei meccanismi che regolavano i rapporti di potere, la distribuzione della ricchezza, i rapporti tra uomini e donne, il ruolo del sapere e quello della religione, la composizione della famiglia, il senso stesso della famiglia.
Il 1968 è però carico di altri fatti: il 4 aprile a Memphis, Tennesee, viene assassinato Martin Luther King, leader del movimento antirazzista; tra maggio e giugno sia in Italia che in Francia le elezioni politiche danno il potere - anche se in misura diversa - alle forze moderate; il 5 giugno a Los Angeles viene assassinato Robert Kennedy, candidato alla presidenza degli Stati Uniti; nella notte tra il 20 e il 21 agosto i carri armati del Patto di Varsavia entrano a Praga, si portano via i protagonisti della Primavera cecoslovacca, che finisce lì; il 5 novembre Richard Nixon viene eletto presidente degli Stati Uniti, dopo 8 anni i repubblicani tornano alla Casa Bianca.
In Italia il Sessantotto finisce l'anno successivo: tra il 27 e il 30 giugno all'undicesimo congresso della Democrazia cristiana Aldo Moro viene messo in minoranza; il 12 dicembre quindici persone vengono uccise e quasi cento ferite da una bomba collocata nella Banca Nazionale dell'Agricoltura di piazza Fontana a Milano; finisce il Sessantotto, inizia la strategia della tensione lunga fino all'assassino di Aldo Moro nel 1978.
Come mai un movimento molto esteso e vitale, combattivo, politicamente colto non riesce a contrastare la reazione sia violenta sia elettorale? Una delle risposte è che il Sessantotto non fu rivoluzione politica ma contestazione di milioni di persone. Uno degli slogan più incisivi degli studenti della Sorbona è "Vietato vietare": non un programma politico, ma una richiesta di libertà per ciascuno e quindi per tutti in quanto somma di libertà personali. Quello che prevale è cioè uno spirito libertario, che comunque costituisce uno dei lasciti più duraturi del Sessantotto. Togliendo dalla scena i possibili riferimenti politici (Martin Luther Kong, Bob Kennedy, Alexander Dubcek, Aldo Moro), la reazione alla contestazione evitava che essa diventasse politica e quindi potesse assumere effettivamente il potere.
Nati in quell'anno e mai invecchiati. Senza potere non si fa la storia: per questo apparentemente il Sessantotto non ha costruito molto e non solo perché - come pur giustamente oggi osservano alcuni dei protagonisti di allora - la pars destruens interpretata con forza dalla contestazione non è stata seguita da una pars construens proporzionata alla spinta distruttiva. Così è, apparentemente, difficile rispondere alla domanda: cosa resta del Sessantotto a cinquant'anni di distanza?
Probabilmente la domanda va reimpostata: come sarebbero stati questi cinquant'anni senza il Sessantotto? Come sarebbero stati se i giovani non avessero chiesto ragione della loro vita ai loro genitori e ai loro insegnanti? Come sarebbero stati se allungando i capelli ed accorciando le gonne ragazzi e ragazze non avessero esibito la loro personalità, diventando persone senza bisogno di assomigliare agli adulti? Come sarebbero stati se quel tempo non avesse rimpicciolito il mondo, spargendo semi di liberazione dall'America latina all'Europa dell'Est che poi sarebbero comunque maturati?
Sono domande che possiamo rivolgere a chi c'era nel 1968, c'è stato in questo mezzo secolo, c'è ancora. Torniamo per farlo là dove la contestazione è iniziata, cioè tra gli studenti e là dove essa ha trovato ispirazione profonda nel Concilio: appartengono, infatti, al Sessantotto italiano la Comunità di Sant'Egidio, Comunione e Liberazione, la Comunità di Bose. Sono studenti Andrea Ricciardi e i suoi amici romani che praticano il servizio ai poveri di Roma avendo come riferimento la chiesa di Sant'Egidio in Trastevere. Superano la crisi di Gioventù Studentesca i giovani che si ritrovano in Comune e Liberazione, che nel nome richiama i sogni del Sessantotto: la liberazione e la messa in comune, la comunione. È uno studente universitario Enzo Bianchi che nel 1968 riceve la visita del cardinale di Torino Michele Pellegrino e vede nascere la comunità cui aveva creduto a Bose.
Sono nomi noti, ma dal Sessantotto in poi la società italiana è arricchita da gruppi giovanili di sostegno ai deboli, di servizio agli handicappati, di condivisione terzomondista nati proprio in quell'anno e mai invecchiati.
29 luglio 2018