È un addio strano: drammatico, come ogni divorzio, ma quasi "privato", proprio come un divorzio. Eppure a dire addio al Partito Democratico sono due segretari di questo giovane partito, Guglielmo Epifani e Pierluigi Bersani; c'è uno che ha fatto il primo ministro, Massimo D'Alema.
"Scissionisti" li definisce l'informazione, ma non si avverte l'enfasi che la "scissione" di solito produce in politica. È come se il divorzio fosse già consumato nell'opinione pubblica: i milioni di cittadini non votanti sono già una bella scissione. Così l'addio avviene senza voglia da parte di chi lo pronuncia. E chi rimane non sa bene come regolarsi, cioè se affrettarsi a chiudere la porta o se lasciare la chiave su.
Responsabilità condivise. Avremmo voluto ascoltare e interrogare coloro che non si sentivano più a casa loro nel Pd prima che lasciassero il Partito Democratico.
Io non credo che abbia ragione Massimo Cacciari quando dice che il PD è un partito nato morto. In dieci anni milioni di italiani hanno vissuto passioni, entusiasmi, condivisioni, speranze. In milioni li vivono ancora, anche se intanto molte speranze si sono appassite e non sono state sostituite da altre. È di visioni (e quindi di speranze) che il Partito Democratico è nato "povero". Era una novità e sulla novità è nato e con Renzi è arrivato al 40 per cento. Quando la novità finisce servono, appunto, visioni e speranze. Essendo poche e non sufficientemente condivise, visioni e speranze non sono bastate per fare un grande partito.
Infatti, un grande partito, quando non trova una condivisione sufficiente al proprio interno, quando il dibattito non arriva a conclusione, ha uno strumento collaudato: il congresso. Il Pd sta andando a congresso, ma anche questo congresso è una stranezza.
Coloro che se ne sono andati non hanno voluto dire le loro ragioni al congresso, ma non è detto che qualche ragione non ce l'abbiano. Certo chi se ne va si assume una forte responsabilità. Specie se e ne va senza combattere, perché non ha truppe sufficienti per affrontare il congresso e perché gli appare insostenibile il permanere in un partito che sarebbe guidato dallo stesso segretario, perché i voti per farlo lui ce li ha.
E da parte sua Matteo Renzi in nessun modo ha manifestato l'idea di non volere davvero perdere una parte del partito a sinistra. Il disprezzo delle mediazioni ha caratterizzato la sua guida del Partito Democratico e ragionevolmente il congresso viene interpretato non come lo strumento per fare una sintesi (anche se con un vincitore), ma come il luogo in cui affermarsi.
Il futuro era l'allargamento. Però quando si rompe una comunità, chi ha avuto il compito di custodirla comunque porta sulle spalle il peso di un insuccesso, il peso di un partito che smagrisce, si inaridisce nelle idee, si ferma nei territori. Probabilmente di questo non si discuterà al congresso; certo non lo si farà con l'opinione pubblica che sarà coinvolta dalle Primarie.
Un dialogo difficile con l'opinione pubblica lo hanno anche coloro che se ne sono andati. Per non apparire come una reazione personale al potere perduto, che non coinvolgerebbe nessuno; il Movimento Democratici e Progressisti prova a porre la prospettiva della ricerca di uno strumento politico più adeguato. Non è una prospettiva nuova nella vita politica italiana. A me, come a molti altri, è capitato di trovare nuove "case" per l'attività politica. Ricordo la DC, e quando è finita il Partito Popolare, nei cui gruppi parlamentari sono stati eletto al Senato, e poi l'Ulivo e ancora la Margherita per arrivare al PD. Lo sforzo era quello di allargarsi come comunità politica per ascoltare componenti larghe della società italiana. L'allargamento guardava al futuro, non aveva in mente quello che era stato. Si costruiva, non si restaurava la politica.
Questa scissione nel Partito Democratico rischia di interrompere per lungo tempo questa capacità di futuro. Ora chi va e chi resta si trova in una comunità più piccola, con amici che ha lasciati o che se ne sono andati.
Diventa perciò autoconsolatorio pensare subito ad una casa più grande, certamente è velleitario. Con le due pagine del documento fondativo il Movimento Democratici e Progressisti dice di aprire "la costituente di un rinnovato centrosinistra" e disegna il perimetro di un'alleanza che vuole includere le "culture socialiste, liberali, cattoliche, democratiche e ambientaliste", i movimenti civici, il volontariato. È la stessa casa del Partito Democratico. In più c'è solo il popolo che ha votato No il 4 dicembre. Ma quello non era un popolo, perché non aveva obiettivi comuni.
Altri ancora alla finestra. E poi non mi pare che almeno in questa fase il Movimento Democratici progressisti sia in grado di rappresentare la maggioranza di coloro che vogliono trasformare e aggiornare il Pd non lasciarlo. In compenso saranno migliaia e migliaia i delusi che si ritirano ulteriormente dalla comunità politica e se ne stanno a guardare, magari perché non hanno voglia di rompere solide amicizie costruire proprio in politica.
Ci si può solo augurare che la scissione stimoli il pensiero di chi resta e di va via, ciascuno dovendo rimotivare se stesso senza l'altro, evitando i tentativi di addossare le colpe all'altro. Se sarà il tempo in cui tutti lavoreranno per superare l'originaria "povertà" di visioni, che ha caratterizzato il Pd, sarà anche più facile che la chiave lasciata nella toppa da chi non si rassegna possa essere utilizzata.
10 marzo 2017