IN POLITICA

Come è stato possibile perdere il popolo
facendo riforme popolari

Nell'ascensore sociale bloccato
la velocità del governo non è una virtù

Utilizzando il dibattito congressuale, il Partito Democratico deve chiedersi perché molti risultati popolari e riformisti
non sono stati avvertiti come tali dal popolo della sinistra

di Tino Bedin

Abbiamo finalmente un governo. Lo abbiamo saputo domenica in tv. Dialogando con Pippo Baudo, il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha detto agli italiani che la legislatura arriverà alla fine, che questo governo ha impegni nazionali, europei ed internazionali che ne riempiono l'agenda fino alla primavera del 2018. Era ora. L'incertezza sulla durata del governo è l'esatto contrario della governabilità: toglie sicurezze ai cittadini ed alimenta aspettative di partiti, di corporazioni e di ambiziosi.
Questa incertezza non durava per i "numeri" in Parlamento, come sarebbe stato normale; durava perché proprio il segretario del partito di riferimento di governo e di ministri lasciava aperte tutte le date per andare a votare: aprile, maggio, giugno, settembre, ottobre. Oltre non si era spinto; il massimo che era arrivato a dire - anche lui in tv, da Fabio Fazio - è stato l'altra domenica: sul voto decide Gentiloni. Ma tutti avevano capito che era solo un modo di… non dire.

Il dovere della responsabilità. Adesso che abbiamo un governo, è possibile fare dei programmi adeguati al suo tempo e alla sua forza. Sarebbe stato meglio farlo fin da subito, quando il Parlamento ha votato la fiducia a Paolo Gentiloni (che così si sarebbe risparmiato anche l'offesa di essere una fotocopia).
Avremmo voluto accompagnare le dimissioni di Matteo Renzi da presidente del Consiglio con una progettazione politica, dentro la quale capire e condividere l'impegno del Partito Democratico per il governo di Paolo Gentiloni, anche valorizzando i risultati del governo di Matteo Renzi ed essendo consapevoli che il Partito Democratico ha saputo e sa assumersi le responsabilità che i cittadini gli affidano.
Quello della responsabilità è una condizione essenziale che gli italiani (anche quelli che non lo votano) pongono da sempre al Partito Democratico, molto meno agli altri partiti, a qualcuno per niente (come si vede a Roma con i grillini). Lo hanno ben sintetizzato Sergio Chiamparino (presidente del Piemonte) e Giuseppe Sala (sindaco di Milano) in una lettera aperta indirizzata a Renzi dalla "Repubblica" di martedì 7 marzo.
"In Italia negli ultimi anni un solo partito si è fatto carico quasi interamente della responsabilità di governo su scala nazionale e locale: il Partito Democratico. È andato tutto liscio in questi anni? Certo che no. Il Pd ha preso quasi tutto sulle sue spalle, con onori ed oneri. E l'ha fatto anche, o forse soprattutto, grazie a migliaia di onesti e preparati amministratori, che si battono ogni giorno per far funzionare comuni piccoli e grandi, città metropolitane e regioni. L'ha fatto, a livello nazionale, grazie a gente seria come Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella, Pierluigi Bersani, Enrico Letta e Paolo Gentiloni. Ma l'ha fatto grazie e soprattutto ad un leader coraggioso ed energico come Matteo Renzi".

Gli interlocutori servono. Quello di Matteo Renzi è stato un governo di larghe intese, composto da partiti che si erano presentati al voto con programmi molto diversi. Eppure il governo è riuscito a fare leggi contro gli ecoreati, il caporalato, la corruzione, la povertà. Gli 80 euro sono un primo passo nella direzione giusta. Sui diritti civili sono state fatte scelte adeguate alla realtà e al sentire della società italiana. È giusta la critica all'austerità tedesca. Gli italiani andare fieri dell'impegno nel soccorso ai profughi e nell'accoglienza ai migranti. Molte di queste decisioni attendevano un "sì" o un "no" da anni, qualcuna da decenni.
Al momento di passare la mano a Paolo Gentiloni era utile - lo è tuttora, magari utilizzando il dibattito congressuale - chiedersi perché molti di questi risultati, palesemente popolari e riformisti, non sono stati avvertiti come tali dall'elettorato democratico, dal popolo della sinistra.
"Probabilmente - si risponde il ministro Andrea Orlando - è stato un riformismo calato dall'alto. Sono stati trascurati gli interlocutori in grado di interpretare i bisogni e sostenere le risposte: associazioni, ambientalisti, mondo della scuola, i sindacati". E Pietro Fassino, inopinatamente sconfitto come sindaco di Torino, aggiunge: "Noi in questi anni abbiamo affidato tutta l'azione di riforma al governo. Non basta. Una riforma devi farla vivere in una società e in questo è il partito a dover svolgere un ruolo fondamentale".
C'è anche dell'altro.

Il meglio alle spalle. Domenica 5 marzo sul "Corriere" il ricercatore sociale Nando Pagnoncelli ha fatto questa descrizione: "Le motivazioni che stanno alla base di questo clima sociale sono in larga misura riconducibili alla percezione di un peggioramento rispetto al passato e alla convinzione che il meglio lo abbiamo alle spalle: l'ascensore sociale si è fermato e il futuro appare ai più incerto e minaccioso. In questo contesto l'aspettativa di miglioramento è di gran lunga superiore ai risultati fin qui ottenuti".
A questo senso di impotenza e di inutilità nei mille giorni del governo Renzi si è risposto con l'ottimismo del fare, che per essere veloce non si è fermato ad ascoltare e a raccogliere un popolo. È successo così che conquiste attese da decenni, penso alla stabilizzazione di decine di migliaia di insegnanti, abbiamo perso di strada proprio i protagonisti di queste attese.
Ho citato la scuola perché è quasi un paradigma con il quale il Partito Democratico e il Governo Gentiloni devono confrontarsi. Con quella riforma sono state stabilizzate 100 mila persone, è stata la più grande stabilizzazione mai fatta in Italia; sono stati stanziati per la scuola 4 miliardi di euro, invertendo una lunga serie di bilanci con il segno meno. Nonostante questo il Pd ha avuto gran parte del corpo docenti contro.
È evidente che ci si deve domandare dove si è sbagliato, cosa non ha funzionato in un rapporto di confronto, di discussione, anche di battaglia politica: battaglia inevitabile quando si fanno scelte importanti, ma utile a creare partecipazione e quindi sentimento di appartenenza ad una comunità.

7 marzo 2017


17 marzo 2017
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Tino Bedin