IN POLITICA

Indifferenza pubblica sul declino demografico dell'Italia
La privatizzazione della famiglia rende tutti più poveri (anche di vita)
Riconoscere le nuove situazioni e codificarne i diritti non passa necessariamente attraverso l'equiparazione delle varie forme di convivenza

di Tino Bedin

Esattamente un secolo dopo, un numero ci riporta alla Grande Guerra. Nel 2015 l'Italia ha perso popolazione: circa 150 mila residenti in meno rispetto all'anno prima. È la seconda volta che succede nella storia italiana.
Per la prima volta bisogna risalire al triennio 1916-1918, cioè agli anni della prima guerra mondiale, quando l'effetto combinato prima del conflitto e a seguire dell'epidemia spagnola fece calare i residenti. Non era più accaduto, nemmeno negli anni dell'emigrazione italiana verso l'Europa e le Americhe.
Un secolo dopo la diminuzione della popolazione è l'effetto combinato di due fattori demografici, cioè nascite (circa 490 mila, per la prima volta sotto la soglia simbolica di mezzo milione di bambini) e morti (quasi 70 mila in più rispetto all'anno prima) e di un fattore economico: i nuovi immigrati sono stati al massimo 30 mila, cioè un decimo rispetto a una decina di anni fa, nonostante le paure elettoralistiche agitate in Italia e in Europa. Così il saldo naturale (la differenza tra nati e morti) negativo per 180 mila persone non è più compensato da nuovi abitanti.
Sono numeri che per la loro consistenza e per la loro collocazione nella storia italiana superano l'ambito della statistica. Descrivono condizioni di declino sociale, di impoverimento economico e di rischio esistenziale almeno altrettanto preoccupanti dei numeri sulla disoccupazione, sul prodotto interno lordo, sull'inflazione. Eppure non fanno notizia (se non nel giorno della loro pubblicazione) e soprattutto non alimentano discussione civile e non promuovono scelte politiche.

Rischioso evoluzionismo umano. L'insignificanza pubblica di questi numeri deriva dalla loro catalogazione. La cultura contemporanea li ascrive prevalentemente alla sfera familiare: una sfera che è sempre meno politicamente considerata, dal momento che la struttura sociale è sempre più incentrata sull'individuo e che la cittadinanza è sempre più individuale e sempre meno organizzata attraverso i "corpi intermedi", tra i quali il primo e più diffuso è (era?) la famiglia.
Del resto, che cosa è la famiglia? La sua specificità è andata via via diluendosi. Dall'inizio di questo secolo, se parli politicamente di "famiglia" vieni puntigliosamente corretto ed invitato a parlare al plurale di "famiglie". L'apparente vezzo linguistico è una scelta socioculturale: prima omologare tutte le forme di convivenza all'idea corrente di famiglia per poi rendere socialmente e politicamente inesistente proprio la famiglia come descritta dalla nostra Costituzione. Il punto di arrivo è la codificazione legislativa di un evoluzionismo umano e sociale che considera normale che le relazioni familiari fluttuino nell'indeterminatezza, si frammentino spontaneisticamente, si disgreghino nell'indifferenza pubblica.
Questa indifferenza non è però ininfluente: finisce infatti per danneggiare proprio le famiglie che reagiscono all'evoluzionismo individualistico. Basti un esempio: chi si sposa subisce un'imposizione tributaria complessiva maggiore di chi non si sposa e non ha figli o ne ha meno.
È un'indifferenza rischiosa anche per la comunità. Anche per questi rischi un solo esempio: la longevità ha messo in difficoltà lo stato sociale, che sta sempre più facendo appello alle famiglie per reggersi in piedi, ma all'appello possono adeguatamente rispondere solo famiglie strutturate, sufficientemente stabili e sufficientemente articolate per età.
"Per questo - e la Chiesa è la sola a farlo presente con insistenza - la famiglia va protetta; va sostenuta con generosità e riconosciuta nella sua identità più profonda", ha recentemente detto il cardinale Bagnasco. Il presidente dei vescovi italiani ha poi spiegato: "Dalla salute della famiglia dipende quella della società, come mostra il fatto che il principale ammortizzatore sociale oggi in Italia è rappresentato proprio dalle famiglie, che con i loro legami parentali e solidali permettono di ammortizzare le conseguenze della disoccupazione, e di occuparsi di categorie, come i malati e gli anziani, che altrimenti sarebbero abbandonati".
Lo scenario non è solo italiano. Lo scorso anno il Pontificio Consiglio per la Famiglia ha condotto un'indagine in alcuni paesi (Argentina, Brasile, Cile, Italia, Messico, Polonia, Spagna e Usa) dalla quale emerge che "la famiglia nucleare (prevalente nei paesi più modernizzati) o estesa alla parentela (nei paesi in via di sviluppo) è la risorsa primaria della società e rimane la sorgente vitale di quelle società che sono più portatrici di futuro". Mons. Vincenzo Paglia, presidente di questo organismo vaticano, ha ulteriormente specificato: "La famiglia è la fonte primaria nelle relazioni di fiducia, di cooperazione e di reciprocità sia al proprio interno sia all'esterno nelle relazioni di parentela, di vicinato, di gruppi amicali, di associazioni. È un vero e proprio capitale sociale che sta alla base delle virtù sociali (e non solo individuali). Insomma, la famiglia è sorgente di valore sociale aggiunto non solo in quanto forma degli individui migliori sotto il profilo della loro salute e del loro benessere, ma anche e soprattutto in quanto genera un tessuto sociale, ossia una sfera civile e pubblica, che richiede valori e regole di vita umana e quindi promuove il bene comune".

Essere maggioranza diventa una debolezza. Ha ragione il cardinale Bagnasco quando dice che la Chiesa è l'unica ad insistere sul ruolo della famiglia. Lo fa non in nome di una dottrina ma in nome dell'uomo: "La famiglia e la Chiesa, su piani diversi, concorrono ad accompagnare l'essere umano verso il fine della sua esistenza. E lo fanno certamente con gli insegnamenti che trasmettono, ma anche con la loro stessa natura di comunità di amore e di vita", ha annotato all'inizio dell'anno Papa Francesco. Per essere compagna di strada della famiglia, la Chiesa ha addirittura compiuto un percorso sinodale durato due anni, lungo il quale è avvenuto "un approfondito discernimento sapienziale, grazie al quale la Chiesa ha - tra l'altro - indicato al mondo che non può esserci confusione tra famiglia voluta da Dio e ogni altra unione. (…) La famiglia, fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo, appartiene al sogno di Dio e della sua Chiesa per la salvezza dell'umanità". Sono ancora parole di Papa Francesco.
Questa famiglia "sognata" da Dio e dalla sua Chiesa è anche il tipo di famiglia (quella composta da madre, padre e figli) largamente maggioritario rispetto ad altre forme di convivenza. Questa larga diffusione non è però garanzia di forza, come abbiamo visto; anzi in una società imperniata sui diritti individuali rischia di essere una debolezza di fronte alle rivendicazioni di gruppi minoritari, che in quanto tali tendono a presentarsi come "discriminati". Anche la politica è quindi chiamata ad un "discernimento sapienziale", per dare risposte che accrescano i diritti di tutti, compresi quelli della maggioranza delle famiglie.

Un'equiparazione fuori dalla Costituzione. Del resto il tipo di famiglia maggioritario è anche quello più vicino all'impianto della Costituzione italiana.
Sono dedicati alla famiglia i primi tre articoli del Titolo II della Carta costituzionale, intitolato "Rapporti etico-sociali", come dire che nella Repubblica italiana i rapporti sociali cominciano per l'appunto in famiglia. In base all'articolo 29 "La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare". L'articolo 30 è dedicato ai diritti educativi della famiglia. In base all'articolo 31 "La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo".
Certo sono passati giusti settant'anni da quando nel 1946 si è cominciata a scrivere la nostra Costituzione. Oggi le "famiglie numerose", di cui giustamente la Carta si preoccupa, sono praticamente scomparse, al punto che fanno notizia quando se ne trova qualcuna. Il matrimonio sembra diventato una sfida più che un obiettivo: "Nelle diverse culture - annota la relazione finale del Sinodo dei vescovi sulla famiglia - non pochi giovani mostrano resistenza agli impegni definitivi riguardanti le relazioni affettive, e spesso scelgono di convivere con un partner o semplicemente di avere relazioni occasionali". È largamente prevalente nella società la convinzione che sia giusto definire meglio e tutelare i diritti individuali all'interno di una coppia, anche dello stesso sesso.
Riconoscere le nuove situazioni e codificarne i diritti però non passa necessariamente attraverso l'equiparazione delle varie forme di convivenza.
La singolarità delle discussioni sulla nuova legge italiana in materia di convivenze sta tutta in questa pretesa: mentre la cittadinanza pubblica della famiglia è sempre meno valorizzata, nel caso delle unioni civili, quelle tra persone dello stesso sesso, si punta ad attribuire diritti non alle persone che formano la coppia ma alla coppia come tale, con ciò equiparando di fatto questa formazione sociale al matrimonio, in quanto i diritti e i doveri sono stabili dalla legge. La singolarità è accresciuta dal fatto che identica preoccupazione non si riserva alle coppie di fatto, quelle prevalentemente eterosessuali, che possono stipulare il contratto di convivenza, con il quale regolano i loro rapporti patrimoniali e i loro reciproci diritti e doveri su base privatistica.
L'insistenza sulla rischiosissima adozione del figlio naturale del partner ha un contenuto più ideologico che di urgenza legislativa: vuole affermare il principio dell'adozione (e attraverso questa della "figliazione") anche nella coppia omosessuale per parificare l'unione civile al matrimonio anche su questo essenziale punto dirimente.

La demografia è la sfida più vera. Non sono però artifici legislativi che rendono una norma coerente con l'impianto della Costituzione e adeguata alle esigenze di sviluppo della società.
La "società naturale" di cui parla la Costituzione è la famiglia naturalmente duale, uomo e donna.
Lo sviluppo della società, anzi dell'umanità, ha come presupposto la vita e la riproduzione del genere umano, che l'unione di un uomo e di una donna assicurano. Senza questo presupposto diventerà sempre più rigido l'inverno demografico nel quale siamo immersi. E altri "inverni" possono aggiungersi a questo. La composizione demografica della nostra società è da tempo una piramide rovesciata: su una punta (i bambini) sempre più sottile pesa una base sempre più larga (i vecchi). Fino a quando questa piramide riuscirà a stare in piedi? E quando il peso dei vecchi diventerà insostenibile per le generazioni che stanno sotto diventerà "spontaneo" il ricorso all'eutanasia? Il dibattito sul costo della sanità, ormai cominciato anche in Italia è una spia di questa evoluzione non ipotetica.
La demografia è dunque una sfida vera per la nostra società e per le nostre istituzioni; è una sfida che si affronta, si combatte e (a lungo termine) si vince solo con la famiglia.

Articolo per "Ardere per Accedere", 10 febbraio 2016


11 febbraio 2016
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