IN POLITICA
Una buona legge elettorale deve promuovere partecipazione e rappresentanza
Il controllo e l'indirizzo dei cittadini anche dopo le elezioni
È una fase straordinaria della nostra democrazia: prima delle regole del gioco, bisogna preoccuparsi del campo di gioco

di Tino Bedin

Cosa votiamo a fare? Votiamo per farci governare o per farci rappresentare? Votiamo per avere un capo o per avere voce?
La risposta che arriva dalla proposta di nuova legge elettorale è che gli italiani vadano alle urne per definire la sera stessa delle elezioni la maggioranza di governo e per stabilire chi la guida. Il compromesso raggiunto tra Renzi e Berlusconi sulla legge elettorale esprime queste attese della società italiana. Per raggiungere questo obiettivo gli italiani sarebbero disposti a rinunciare a farsi rappresentare in Parlamento e a non avere voce con gli eletti.
Pareva che l'attesa della maggioranza degli italiani fosse diversa: evitare di ritrovarsi un altro (e sarebbe il quarto consecutivo) "Parlamento di nominati". E non era un'attesa velleitaria, qualunquistica: la Corte Costituzionale, nella sentenza con la quale ha dichiarato incostituzionale la legge elettorale Berlusconi-Calderoli, richiama la necessità che il Parlamento sia eletto "con il sostegno della indicazione personale dei cittadini". Invece il punto di equilibrio tra Renzi e Berlusconi non prevede che i cittadini si esprimano sui candidati, ma solo su "listini" con 3-6 nomi da prendere o lasciare in blocco. "Lo confesso: sono un sostenitore delle preferenze. Purtroppo sul punto si è registrata una netta ostilità di Forza Italia", ha ammesso Matteo Renzi all'indomani del compromesso.

Solo per il Parlamento niente preferenza? Buona parte del dibattito sulla legge elettorale si sta per ora concentrando proprio sulle preferenze, cioè sul diritto del cittadino di scegliere non solo il partito o la coalizione, ma anche le persone che ritiene più adatte a rappresentarlo in Parlamento.
C'era una volta questo diritto. Ad un certo punto gli italiani non lo considerarono più tale, perché avevano visto che si era trasformato in uno strumento per controllare il voto e in una fonte di spese per la campagna elettorale e con due referendum consecutivi (1991 sulla preferenza unica, 1993 sul sistema elettorale del Senato) eliminarono preferenze e sistema proporzionale a vantaggio del sistema maggioritario nell'elezione del Parlamento.
Oltre vent'anni dopo se ne può evidentemente ridiscutere. Anzi se ne discute animatamente e giustamente perché i sistemi elettorali nati dai due referendum non hanno assicurato la stabilità di governo e non hanno ridotto i costi della politica.
E poi l'espressione della preferenza, abolita per l'elezione del Parlamento, è rimasta in tutte le altre elezioni. Si vota con le preferenze per i consigli comunali, i consigli regionali e il Parlamento europeo. Insomma l'impossibilità per il cittadino di scegliere personalmente i componenti del Parlamento nazionale è l'eccezione, non la regola.
Anzi ultimamente le preferenze si sono un po'… allargate. A partire dall'anno scorso, in base alla legge 215/2012, "volta a promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nelle amministrazioni locali", i cittadini dei comuni superiori ai 5000 abitanti possono esprimere due preferenze per i consiglieri comunali purché riguardanti candidati di sesso diverso. Ad "allargarsi" per prime erano state le Regioni: già la legge 4/2009 (Legge elettorale) della Regione Campania prevede la doppia preferenza di genere.
Sia il Parlamento (per la legge elettorale comunale) sia le Regioni (per le loro leggi elettorali) concordano dunque nel ritenere l'uso della preferenza uno strumento per promuovere la partecipazione e la rappresentanza: migliore delle liste bloccate con l'alternanza di genere o della "quota rosa" garantita per legge. Con la doppia preferenza infatti il cittadino decide proprio tutto: se concorda con il riequilibrio di genere e chi lo rappresenterà in questo riequilibrio.

Quello che più serve alla "casa comune". C'è un riequilibrio più generale di cui la nostra comunità civile ha bisogno: riguarda il rapporto fra cittadinanza e rappresentanza nella nostra democrazia. Le potenzialità di internet hanno esasperato l'urgenza di questo riequilibrio, che comunque è un'esigenza che viene prima e oltre la "rete", perché riguarda il nostro "stare insieme". La trasformazione dell'economia globale che ogni giorno di più approfondisce la frattura fra il lavoro produttivo (quello dei dipendenti e degli imprenditori) e la rendita finanziaria e non produttiva sta reclamando un ruolo attivo della politica, sul quale le persone e le famiglie e le imprese intendono però esercitare un potere di controllo e di indirizzo.
È una fase straordinaria della nostra democrazia (non solo italiana). Prima delle regole del gioco, bisogna preoccuparsi del campo di gioco.
Confesso - anch'io - che non sono mai stato un appassionato del voto di preferenza. Ho sempre pensato che il più costruttivo legame tra elettori ed eletti si crei con il collegio uninominale. Utilizzato da sempre per l'elezione dei consiglieri provinciali, era anche il metodo con cui venivano eletti i senatori prima del "Mattarellum" ed è poi diventato per tre legislature il sistema elettorale di Camera e Senato. Essendo stato eletto al Senato della Repubblica proprio per l'intero periodo in cui quel sistema ha funzionato, mi sono confermato nella mia convinzione.
Oggi penso che almeno per una fase della nostra democrazia sia importante utilizzare il metodo della preferenza.
Penso anche che la legge elettorale non debba negare l'accesso alla rappresentanza di parti numericamente minoritarie ma comunque presenti nella nostra società.
Sintetizzando: l'esigenza principale non è la governabilità ma la ricostruzione di una "casa comune", che deve essere riconosciuta come tale dai singoli cittadini e dalla maggior parte possibile delle loro aggregazioni.

26 gennaio 2014


12 febbraio 2014
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Tino Bedin