Il capo della Destra italiana, Silvio Berlusconi, ha rispolverato in queste settimane - assieme ad altri arnesi di propaganda politica che pensavamo ormai affidati alla polvere della storia - anche la battaglia contro la centralità del Parlamento, chiedendo esplicitamente il voto alle elezioni del 24 e 25 febbraio per modificare la Costituzione e trasferire poteri e competenze dal Parlamento al Governo.
Non è un argomento che cambia la vita delle persone, delle famiglie e delle imprese. Non è neppure di attualità, visto che l'impoverimento di milioni di italiani ha relegato le riforme istituzionali molto in basso nella lista degli interessi degli elettori.
I due imbarazzi di Berlusconi. La riesumazione di questo tema serve solo a Berlusconi per giustificare due situazioni imbarazzanti per lui.
Innanzi tutto la mancata realizzazione del programma sul quale aveva ottenuto un largo consenso popolare cinque anni fa. Essendo stato lui capo del governo, adesso deve dire che non conta il Governo ma contano gli altri organi della Repubblica, Parlamento e Presidente della Repubblica in primo luogo.
In secondo luogo deve far finta di non essere il candidato della coalizione di Destra alla guida del governo (in caso di vittoria della Destra), perché la Lega per allearsi con il Pdl ha fatto finta di credergli quando ha dichiarato che non sarà lui il capo del governo. In questa situazione Silvio Berlusconi deve raccontare la favola dell'insignificanza del presidente del Consiglio rispetto agli altri poteri; questa volta ha reso la favola ancora più fantasiosa: il presidente del Consiglio dei ministri non solo non conta niente nella scala dei poteri istituzionali, ma addirittura conta meno dei singoli ministri.
Al di là dell'uso strumentale che ne fa la Destra in questa campagna elettorale, c'è motivo per rivedere la centralità del Parlamento e quindi la centralità del singolo cittadino elettore nella scelta di tutti gli organi della Repubblica?
Le veloci leggi "personali". L'obiezione che più fa presa sui cittadini è quella della lentezza decisionale che questa centralità determinerebbe. Le decisioni devono avere il voto di entrambi i rami del Parlamento, questo comporta che quasi sempre i disegni di legge debbano prendere la… navetta (come si dice) tra Palazzo Madama e Montecitorio, prima di approdare in Gazzetta Ufficiale.
Ma non sono queste procedure - pensate per una valutazione attenta delle leggi - a determinare la lentezza.
I Regolamenti parlamentari stabiliscono tempi preordinati e anche stringenti. I presidenti delle Camere - specialmente durante i governi Berlusconi - li hanno applicati e anche modificati in funzione delle scelte del governo.
Il governo dispone dello strumento del decreto legge, abbondantemente utilizzato, e della tagliola della "fiducia" quando vuole bloccare l'ostruzionismo dell'opposizione e le imboscate della maggioranza.
Insomma, quella della lentezza del Parlamento è un'obiezione che viene smentita nei fatti proprio dall'esperienza di Berlusconi capo del governo, che è riuscito a farsi approvare in tempi rapidissimi provvedimenti che lo riguardavano, quando la sua maggioranza era d'accordo.
Il tema è, dunque, la coesione della maggioranza, non la procedura parlamentare.
La conferma viene dall'ultimo anno. Quanto ci ha messo il Parlamento ad approvare la riforma delle pensioni? Quanto ci ha messo ad approvare la reintroduzione della tassa sulla prima casa? Quanto ci ha messo addirittura a modificare la Costituzione introducendo in essa il principio del pareggio di Bilancio?
Ritorno al bicameralismo "imperfetto". Un'altra obiezione riguarda il "bicameralismo perfetto": due Camere uguali, che fanno le stesse cose, sono utili?
Questa obiezione ha un fondamento e merita di essere affrontata nella prossima legislatura.
Non dovrebbe essere difficile, perché basterebbe andare a vedere quello che i Padri Costituenti avevano disegnato e poi scritto nella Costituzione. All'inizio della nostra storia repubblicana infatti non c'era il bicameralismo perfetto.
La Camera dei Deputati durava cinque anni; il Senato della Repubblica restava in carica sei anni. Il numero dei deputati era fisso; quello dei senatori doveva variare a seconda della popolazione. I deputati erano eletti sulla base del voto nazionale e con il sistema proporzionale. I senatori erano eletti sulla base dei voti in ciascuna regione; la competizione elettorale avveniva sulla base di colleghi sub-provinciali e con il sistema proporzionale-uninominale: ogni partito aveva un solo candidato per collegio e i collegi erano assegnati col sistema proporzionale (il sistema che oggi è rimasto per l'elezione dei consiglieri provinciali).
Di questa impostazione è rimasta solo l'elezione del Senato su base regionale, ora fortemente criticata perché fonte di incertezza sulla equivalenza della maggioranza nei due rami del Parlamento.
Verrebbe da dire che il problema non è il riferimento regionale di una delle due Camere, specie ora che con la riforma costituzionale del 2001 si è accentuata la struttura autonomistica della Repubblica. Il problema è un sistema elettorale progettato per azzoppare il possibile vincitore.
Le soluzioni alla situazione attuale sono molteplici. Un'innovazione sulle competenze e sulla composizione diverse tra le due Camere non risponde solo all'esigenza di superare il bicameralismo perfetto, ma soprattutto a quella di accrescere il potere dei cittadini.
Ricordo che in Senato sono stato tra i presentatori di una proposta di modifica costituzionale che assegnava al Senato il ruolo di "Camera europea" nazionale, con competenze specifiche sulla legislazione comunitaria. La finalità era quella di restituire potere ai cittadini anche su una legislazione che attualmente è fortemente intergovernativa.
13 gennaio 2013