OGGI

Possono continuare a crescere insieme rifiuto della politica e difesa dei beni comuni?
La democrazia: contenuto e strumento del bene comune
La devastante crisi di questo inizio di millennio certifica tutta l'insufficienza dell'ideologia utilitaristica

di Tino Bedin

Non hanno gli stessi protagonisti, se non casualmente. Non sono collegati; addirittura sembrano ininfluenti l'uno per l'altro. Ma crescono insieme, nello stesso tempo, nella stessa società.
Cresce il rifiuto della politica. Per sempre più cittadini il rifiuto diventa odio: non solo si può fare a meno della politica, ma bisogna combatterla, eliminarla. Nell'opinione pubblica l'antipolitica è diventata addirittura un movimento politico. All'interno della politica, l'antipolitica ha issato la bandiera della "rottamazione". Nelle Istituzioni l'antipolitica rende accettabile oggi (e addirittura desiderabile anche per il domani) un governo non eletto dai cittadini.
Cresce contemporaneamente la consapevolezza che esistono beni comuni. Milioni di cittadini (nel mondo e in Italia) stanno ridando attualità all'aggettivo "comune", che avvertono come inscindibile dalla definizione di una serie di "beni", che fino a pochi decenni fa avrebbero definito "pubblici", se non semplicemente "beni" cioè oggetti del mercato. In Italia il successo del referendum sull'acqua (dopo il fallimento di decine di altri referendum) è la misura di questa "comune" consapevolezza. I cittadini vi sono arrivati prima di sociologici e giornalisti, filosofi ed economisti, governanti e funzionari: a conferma che il bene comune è un bisogno profondo che finalmente riemerge.

Ridare dignità e competenze alla politica. Possono continuare a crescere insieme rifiuto della politica e difesa dei beni comuni? Può maturare il più generale "bene comune" senza la politica?
Sembra proprio di no.
Il "Compendio della Sociale della Chiesa" (pubblicato nel 2004) avverte che il bene comune "essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché è indivisibile e perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro". La politica è lo strumento della vita in comune, cioè della vita di tutti (non degli interessi legittimi di una maggioranza come spesso siamo portati a credere). Dunque bene comune e politica sono inscindibili: il primo non si realizza senza la seconda e questa è inutile senza il primo, "poiché il bene comune è la ragion d'essere dell'autorità politica", come precisa il già citato "Compendio".
La prima responsabilità per il bene comunque è dunque da esercitare nei confronti della politica, sia per restituirle dignità sia per darle strumenti e competenze a misura del governo che deve esercitare. Da una parte sarebbe infatti assai grave che l'inadeguatezza morale della politica non consentisse di far fruttare la consapevolezza del bene comune che proprio nel nostro tempo si sta diffondendo nelle opinioni pubbliche ed in particolare in quella italiana. Dall'altra parte è sempre più indispensabile che la politica assuma l'autorità che le è richiesta dalla globalizzazione e la cui insufficienza è fra le cause dell'attuale crisi finanziaria che ha impoverito milioni di famiglie che ancora non vedono una via d'uscita.

Cosa abbiamo in comune tra noi? La politica - e la democrazia in particolare - ha del resto la natura stessa del bene comune: l'una e l'altro riguardano la qualità delle relazioni tra persone; qualità che si crea quando accanto all'io e al tu si fa sempre coesistere il noi; qualità che si accresce con il mio, il tuo e anche con il nostro.
Per la verifica di questa qualità basta allora una domanda semplicissima: che cosa abbiamo in comune tra noi?
Proviamo a porre la domanda dal punto di vista dei primi responsabili del bene comune, cioè a coloro che attraverso la politica hanno scelto di essere strumento di relazione tra le persone.
Cos'hanno in comune gli eletti nelle istituzioni con i loro concittadini? Hanno la stessa auto? Vanno dallo stesso barbiere? Mandano i figli alla stessa scuola? Non sono domande populiste né antipolitiche. Traduciamole: sapere che auto si comprano le famiglie è conoscerne il reddito; frequentare lo stesso barbiere è sapere di cosa parlano più liberamente; scegliere una scuola è esprimere le speranze di futuro per i giovani.
Se quotidianamente i politici non si fanno queste domande e non ne cercano le risposte, nasce la casta. La casta non è solo motivo di scandalo, ma è la negazione stessa della politica, che per essere ricerca ed attuazione del bene comune, deve a priori essere partecipazione responsabile alla costruzione della casa comune. Chi ha scelto di rappresentare altri, molti altri, nelle istituzioni deve rappresentarli anche nella vita. Altrimenti sarà il primo responsabile degli atteggiamenti di delega e di riflusso nel privato, che lui stesso magari rimprovera ai propri concittadini.
Proviamo adesso con noi, con ciascuno di noi, a continuare a porre la domanda: cosa abbiamo in comune tra noi? E restiamo nell'ambito della politica, perché è da qui che si fa il bene comune.
Quanto abbiamo messo in comune del potere che ci compete come cittadini? quanto mettiamo in comune le conoscenze di cui disponiamo? quante speranze mettiamo in comune? Soprattutto: quanto ci sentiamo in comunione con ciascuna delle altre persone di cui condividiamo almeno una parte del tempo?
La parola "comunione" non appartiene più alla società. La solidarietà ci pare già abbastanza impegnativa, tanto che neppure essa è molto di moda. A volte esercitiamo la condivisione, che è un'attitudine diffusa ma straordinaria, riservata alle emergenze e alle disgrazie (come ha mostrato anche l'ultimo terremoto). La "comunione" proprio no: non è una scelta pubblica. Magari in chiesa, un po' si può citarla, ma fuori non sarebbe compresa.
Eppure il bene comune respira la comunione, cioè una condizione in cui ciascuno non può a fare a meno dell'altro, in cui non basta che ciascuno stia bene per sé ma ciascuno sta bene anche perché l'altro sta bene. Sintetizza bene ancora il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa: "Il bene comune non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale. Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo anche in vista del futuro. È un bene arduo da raggiungere, perché richiede la capacità e la ricerca costante del bene altrui come se fosse proprio".

L'utile personale conduce al bene della comunità? Questa definizione di "bene di comunione" nei cittadini è sempre più concreta perché ha il nome di acqua, di aria, di clima, ma anche di biodiversità e di sementi, di conoscenza e di comunicazioni nell'etere. Per questi ed altri beni comuni i rapporti costruiti solo sullo scambio commerciale e su un convenzionale valore economico non soddisfano più, vengono avvertiti come inadeguati al valore di vita e di futuro comuni che questi beni incorporano.
Anche o beni privati ed i beni pubblici concorrono allo sviluppo umano, ma i beni comuni sono indispensabili. Per questo la produzione e la riproduzione di questi beni esigono scelte politiche, istituzionali, anche costituzionali. Scelte che saranno possibili solo a condizione che si superi definitivamente l'ideologia utilitaristica, attraverso la quale il liberismo economico ha conquistato il consenso di milioni e milioni di persone.
Si tratta di quell'impostazione teorico-pratica per cui "l'utile personale conduce al bene della comunità". Questa ideologia ha utilizzato la globalizzazione per dimostrare le sua "verità": in effetti la ricchezza prodotta a livello globale negli ultimi due decenni del secolo scorso è cresciuta in misura molto più rapida che in passato ed il reddito medio si è elevato. Ma non si è trattato di una distribuzione equa della ricchezza, per cui sono aumentate anche le disuguaglianze. Inoltre questa ideologia porta inevitabilmente all'accaparramento dei beni: di tutti i beni, visto che essa non riconosce beni comuni, ma solo beni privati o al massimo beni pubblici. La devastante crisi di questo inizio di millennio certifica ora tutta l'insufficienza di questa ideologia.

Condivisione globale della sovranità dei cittadini. Lo strumento decisivo per ritornare al bene comune è l'esercizio della democrazia. Cito ancora il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa: in democrazia "coloro ai quali compete la responsabilità di governo sono tenuti a interpretare il bene comune del loro Paese non soltanto secondo gli orientamenti della maggioranza, ma nella prospettiva del bene effettivo di tutti i membri della comunità civile, compresi quelli in posizione di minoranza".
La democrazia è essa stessa bene comune. Ce lo spiega il filosofo francese e Premio Nobel Henri Bergson: "Così è la democrazia: proclama la libertà, rivendica l'uguaglianza e riconcilia queste due sorelle nemiche, ricordando loro che sono sorelle".
Oggi la democrazia, come bene comune, ha bisogno di "manutenzione" da parte dei cittadini, che ne sono i primi responsabili. Avverte Stefano Zamagni: "Il modello della democrazia rappresentativa - i cui meriti storici sono fuori di ogni dubbio - non è più in grado di sostenere istituzioni pubbliche capaci di assicurare una equa distribuzione dei frutti dello sviluppo e di dilatare gli spazi di libertà dei cittadini".
Anche questa difficoltà è frutto della ideologia utilitaristica. Così come per le persone, anche per gli Stati nell'ultimo trentennio è prevalsa l'idea che va prima ricercato l'utile "locale", pur come premessa dell'utile globale. Questa ideologia ha consolidato aspirazioni separatiste nei singoli Stati e contemporaneamente a via via affievolito la forza di organismi sovranazionali creati come strumenti di un bene comune essenziale, la pace: pensiamo in particolare alla frenata che l'Unione Europea ha subito ad opera dei singoli Stati non appena ha assunto una dimensione davvero continentale. Ciò si è verificato anche per altri organismi sovranazionali.
Questo ha due conseguenze sulla democrazia: da una parte c'è un trasferimento di poteri ad organismi senza rappresentanza e senza controllo democratico; proprio questo deficit di democrazia rende per converso deboli questi organismi nei confronti del mercato globale. La conseguenza è che al mercato globale sono lasciate competenze di governo.
Forse il più urgente impegno per il bene comune - per chi voglia portare un contributo stabile al superamento della crisi sociale in atto - è quello di riprendere la costruzione della casa comune europea, dotandola di effettiva struttura democratica in modo che la sovranità sia effettivamente nelle mani dei cittadini; e i cittadini - attraverso questa riconosciuta autorità europea - possano contribuire al governo del bene comune globale.

30 settembre 2012


19 novembre 2012
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Tino Bedin