SICUREZZA E DIFESA
Il governo rifinanzia la missione Iraq come un fatto burocratico
Non ci abituiamo alla guerra
Cambiare la presenza italiana, finanziando l'intervento umanitario

Nella discussione generale sul decreto di rifinanziamento della missione italiana "Antica Babilonia" in Iraq, è intervenuto il senatore Tino Bedin, capogruppo in Commissione Difesa, per motivare le proposte alternative alle scelte fatte dalla Destra.

di Tino Bedin capogruppo Margherita in Commissione Difesa

Noi non ci abituiamo alla guerra. Non ci si sono abituati gli iracheni. Non ci si sono abituati i militari italiani. Non ci si sono abituati gli italiani.
Questo nuovo decreto del governo sul rifinanziamento della Missione militare italiana in Iraq ha invece il connotato della routine: si rinnova perché è arrivata a scadenza la rata di pagamento della nostra quota di appartenenza al "Club dei volonterosi". Si paga e si continua a restare in un Club sempre più ristretto; in molti hanno ripensato la loro adesione: oltre a numerosi Stati dell'Unione Europea, hanno deciso di lasciare l'Iraq: l'Honduras, la Repubblica Dominicana, il Kazakistan, Singapore, la Norvegia, le Filippine, l'Ucraina.
Qui nel Parlamento italiano la questione irachena è invece "solo" una proroga.
L'idea della routine era ancora più esplicita nella versione iniziale del decreto proposto dal governo al parlamento che collocava "Antica Babilonia" all'interno del complesso delle missioni internazionali italiane. A Nassirya - secondo il governo - i militari italiani stanno come in tutte le altre parti del mondo, nonostante i caduti, nonostante il codice penale militare di guerra, nonostante le immagini tragiche di ogni giorno.
Nessuna guerra è un'abitudine. I militari italiani non sono in guerra, ma sono stati mandati a svolgere una missione di pace in una zona di guerra. È stata chiesta loro, e si continua a chiedergliela, una missione impossibile. Questo decreto è l'occasione per por fine a questa richiesta assurda, che mette a rischio i nostri militari, che non giova agli iracheni.

Iracheni a votare per farsi restituire il loro destino
Voi del governo, voi della maggioranza dite: ma gli iracheni il 30 gennaio sono andati a votare in massa, hanno potuto partecipare ad elezioni democratiche; questo non sarebbe stato possibile se gli Stati Uniti non avessero cacciato Saddam Hussein.
Voi sapete che gli iracheni non sono andati a votare per far contento George Bush, ma ascoltando il Grande Aytollah Al Sistani. Voi sapete che l'elevata partecipazione al voto degli iracheni è un segnale preciso proprio agli Stati Uniti; è come se avessero gridato: noi siamo un popolo già formato e forte, che vuole vedersi restituito il proprio destino; al più presto.
Voi sapete che il dato politico che emerge dalle elezioni è la sconfitta elettorale del partito del capo del governo provvisorio. I vincitori delle elezioni, cioè sciiti e curdi, probabilmente richiederanno molto presto il ritiro delle truppe della coalizione.
Voi sapete soprattutto che nulla può giustificare l'intervento unilaterale degli Stati Uniti: la democrazia non nasce su strade arate dai cingoli dei blindati, ma in cuore e menti irrorati dai diritti. E il diritto alla propria terra è fra i quelli che rendono possibile proprio la coscienza di essere popolo.
Voi sapete che non sarà possibile prendere a pretesto le elezioni irachene per seguire l'America di Bush nelle sue crociata di esportazione della democrazia: così come l'Irak è diventato luogo di terrorismo, molte altre parti del mondo diverrebbero insicure e la nostra vita non conoscerebbe né quiete né pace.
Noi sappiamo che non c'è la guerra buona che costruisce la pace e che porta la democrazia.
Noi sappiamo che in guerra si sta come in guerra e per questo insistiamo perché cambi la nostra presenza in Iraq, perché alle nostre donne e ai nostri uomini che sono in Iraq sia riconosciuta la loro indubbia competenza di operatori di pace.
Invece questo decreto insiste a ripetere la situazione di sei mesi fa.

Se ne vanno i Polacchi, tornano a casa Olandesi e Ungheresi
Cambiare è però possibile. Per noi è doveroso.
Bisogna che l'Italia faccia la sua politica. Non da sola ovviamente, ma recuperando il suo compito in Europa, con l'Europa.
Il governo italiano ha contribuito alla divisione dell'Europa in occasione della decisione unilaterale degli Stati Uniti sull'Iraq. Ora è tempo di contribuire all'unità politica dell'Europa; ora che anche alcuni paesi che hanno mandato le loro truppe in Iraq hanno annunciato il disimpegno; perfino la Polonia ha deciso di concludere la sua missione irachena. In questi giorni stanno tornando in patria i militari portoghesi, che in Iraq erano sotto comando italiano. Se ne va l'Olanda. A marzo non ci saranno più gli ungheresi. Gli spagnoli erano stati i primi a ritirarsi. Bulgaria e Romania, due prossimi membri dell'Unione Europea, hanno fissato per il 2005 il calendario di ritiro delle truppe. È un quadro nuovo, nel quale l'Italia può svolgere un ruolo che vada a vantaggio degli iracheni e che rafforzi l'Europa.
Con l'Europa l'Italia può collaborare perché sia convocato al più presto il parlamento iracheno che le urne hanno indicato e che da questo parlamento nasca un nuovo governo e che si adotti una costituzione scritta in modo da garantire tutti (compresi i sunniti).
Sul piano internazionale l'Italia con l'Europa deve premere per l'intervento diretto delle Nazioni Unite e una nuova conferenza internazionale sugli aiuti. Sul piano della sicurezza va accuratamente preparata una riunione del Consiglio di sicurezza dell'Onu che metta a punto un piano per il rientro delle truppe, il passaggio dei poteri, il riassetto del paese. In questo quadro il contingenti straniero oggi presente va sostituito con una forza multinazionale che garantisca la sicurezza.
Si può fare. Si deve fare. L'Italia deve contribuirvi, apertamente, convintamene. Non può continuare ad aspettare che altri decidano, siano essi il governo iracheno o il governo americano. L'Italia deve dire la sua scelta e collaborare perché sia condivisa.

Riequilibrare spesa umanitaria e spesa militare
In questo decreto non c'è nessuna scelta. Eppure si può farne qualcuna, proprio nella direzione che ho indicata: ad esempio prorogando la missione per il tempo tecnico e politico del rientro; oppure prorogare la missione in funzione di una forza multilaterale a guida delle Nazioni Unite.
Noi non vogliamo sottrarci alle responsabilità che da anni e principalmente con i governi dell'Ulivo l'Italia si è assunta come forza di pace nel mondo. Noi non vogliamo che gli iracheni restino soli.
Quella che ha davanti il popolo iracheno è una stagione nuova in un Paese che non ha conosciuto la democrazia, che è stato oppresso ed umiliato per decenni da una dittatura tremenda e sanguinaria, che ha vissuto sulla propria carne una guerra ed un terrorismo che hanno prodotto molte vittime, danni enormi alle famiglie, alle loro abitazioni e al patrimonio nazionale. È una stagione impegnativa, difficile. Ma è a questa stagione che noi chiediamo di poter collaborare come Italia.
Un nostro emendamento chiede di riequilibrare nel decreto le spese per la parte umanitaria rispetto alle spese per la parte militare. Ecco un altro dei cambiamenti da fare per essere in sintonia con il futuro nuovo che gli iracheni hanno cominciato ad immaginare per loro con le elezioni del 30 gennaio.
Noi pensiamo che il modello civile europeo, quello dell'allargamento e di una democratizzazione non forzata ma per emulazione abbia un potere di attrazione fortissimo. Lo si è appena visto in Ucraina. L'Europa come potenza civile può svolgere un ruolo decisivo in Iraq e non solo in Iraq.
Cambiando le caratteristiche di questo decreto l'Italia può portare il suo contributo a questo progetto, a questa sfida di pace e di democrazia.

Supplire alla forzata partenza dei volontari
Il riequilibrio tra spesa umanitaria e spesa militare nel decreto è indispensabile anche per l'evoluzione della situazione irachena sul piano umanitario.
La favorevole conclusione del sequestro delle "Due Simone" ha fatto successivamente passare in secondo piano un grave problema che proprio quel sequestro avrebbe dovuto evidenziare agli occhi del governo e del parlamento: la necessità di evacuare il proprio personale estero dall'Iraq a seguito della condizione di grave pericolo che si sono determinate, da parte delle organizzazioni non-governative internazionali.
Le organizzazioni non-governative e della società civile mondiale, siano esse a prevalente carattere umanitario o impegnate in progetti di sviluppo, in azioni di informazione e denuncia o in altre iniziative solidali hanno sempre accettato il generico rischio connesso alla presenza in zone di combattimento, operando per ridurlo al massimo ma consapevoli dell'impossibilità di azzerarlo, come intrinseco alla propria attività.
La situazione nuova che si è determinata in Iraq è l'emergere di gruppi fondamentalisti armati che hanno adottato il sequestro del personale civile occidentale, operatori di ONG, giornalisti, ecc, come strumento di guerra mediatica o a fini di autofinanziamento. Cambia quindi la natura del rischio: da rischio, alle volte elevato, ma accidentale, di trovarsi nel luogo sbagliato al momento di un bombardamento o di un attentato, alla possibilità di essere bersaglio deliberato di azioni ostili da parte di una delle parti belligeranti. Da "vittime collaterali" a "obiettivi".
Questa situazione, che è comune ad altri scenari di guerra come la Cecenia o l'Afganistan, pone in maniera del tutto nuova ed inesplorata la questione della presenza di operatori di pace in luoghi di guerra. In Iraq ha ridotto le possibilità per la popolazione di usufruire di aiuti internazionali.
La situazione sanitaria ad esempio si è deteriorata con la partenza degli aiuti internazionali, presenti nel corso dell'era delle sanzioni. L'Onu non c'è, Care International ha chiuso i battenti dopo il sequestro (e l'assassinio) della direttrice in Iraq, Margaret Hassan.
Evidentemente tocca dunque ora anche all'Italia cercare di ridurre questo vuoto, attraverso una più mirata e finanziata opera umanitaria del proprio personale sia civile che militare.

I bambini iracheni malnutriti come quelli del Burundi
La conferma di questa urgenza viene da un rapporto che nei mesi scorsi è stato realizzato per conto dell'Unicef, l'agenzia Onu che si occupa dell'infanzia, reso noto oggi. "L'opera umanitaria in Iraq è stata impedita dal fatto che le agenzie di assistenza internazionali, compresa l'Onu, sono state fatte oggetto direttamente di attacchi e costrette a realizzare i propri programmi d'aiuto dai paesi vicini", afferma l'Unicef. Il capo dell'Unicef, Carol Bellamy, ha denunciato che migliaia di bambini iracheni soffrono di diarrea e deficienze nutritive. Secondo lo studio del norvegese Fafo Institute for Applied Social Sciences, il tasso di malnutrizione, che era disceso poco a poco fino al 4 per cento di due anni fa, è precipitosamente risalito quest'anno al 7,7 per cento del totale dei minori di cinque anni. Insomma, ha fatto peggio un anno di caos che le sanzioni dell'Onu.
A oggi, il tasso di malnutrizione è più o meno pari a quello del Burundi, paese africano sconvolto da dieci anni di guerra, e parecchio più alto di quello di Uganda e Haiti. L'aumento della malnutrizione è dovuto a una serie di concause, ma principalmente alla carenza di acqua potabile o dell'elettricità necessaria a far bollire l'acqua impura.
Questa emergenza umanitaria - che non era così evidente all'inizio della missione "Antica Babilonia" non ha nessun riscontro nel decreto di proroga della Missione. Anche per questo aspetto siamo dunque contrari ad una ripetizione del passato, senza tenere conto delle condizioni di vita degli iracheni

L'Italia vende armi in una zona di guerra
In compenso leggiamo dall'Ansa del 3 febbraio questa notizia: «Il nuovo esercito iracheno verrà equipaggiato anche con armi italiane, dopo che il governo provvisorio del premier Iyad Allawi ha concluso contratti con quattro paesi per l'acquisto di carri armati, mezzi blindati, aerei ed elicotteri militari, motovedette. Lo ha dichiarato il ministro della difesa iracheno Hazem Shalaan, citato oggi dal quotidiano Al-Jarida (Il Giornale). In una conferenza stampa in occasione dell'inaugurazione a Diwaniya (a sud-est di Baghdad) del comando dell'Ottava divisione del nuovo esercito, Shalaan ha precisato che i contratti per le forniture belliche sono stati firmati con Italia, Polonia, Ucraina e Russia. Il ministro ha aggiunto che i nuovi armamenti serviranno per "costruire forze armate moderne"».
Se non sbaglio la pur deformata legge 185 sul commercio delle armi vieta la vendita a paesi che sono in situazione di guerra. Chiediamo quindi conto alo governo di questa decisione e vorremmo anche capire se oltre alle spese previste in questo decreto, dobbiamo aspettarci altri costi, magari destinati a finanziare questa vendita di armi.
Ma è la decisione che ci preoccupa in riferimento a questo decreto: evidentemente per il governo italiano l'Iraq non è un'area di guerra, per cui si può ufficialmente consentire ilo commercio di armamenti. Questo contrasta con tutto quello che quotidianamente si vede alla tv. Soprattutto fa perdurare l'ambiguità che mette a rischio la sicurezza dei nostri militari.
Anche per i nostri militari è necessaria la chiarezza. Da parte nostra lavoriamo per questo scopo nella convinzione che sia uno dei modi giusti per rendere onore al loro impegno e per considerare il sacrificio dei caduti parte della nostra storia.

Testo integrale dell'intervento del senatore Tino Bedin. Per il contigentamento dei tempi di discussione l'intervento è stato sintetizzato nella versione pronunciata.
Aula del Senato / 15 febbraio 2005


27 febbraio 2005
sd-130
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Tino Bedin