SICUREZZA E DIFESA
Il compito delle nostre missioni militari internazionali
Onor di patria è lavorare per la pace
Non sono cambiate le condizioni per il voto contrario sull'Iraq

di Tino Bedin capogruppo Margherita in Commissione Difesa

A cadenza semestrale, attraverso il finanziamento delle operazioni militari all'estero, il Parlamento ha l'occasione per un approfondimento della politica internazionale dell'Italia. Le missioni militari non sono tutta la nostra politica estera; non lo dovrebbero essere. Altri capitoli di questa politica, ad esempio quello della cooperazione allo sviluppo, non hanno né la stessa attenzione né le stesse risorse; anzi. Non abbiamo dimenticato il tentativo di finanziare l'intervento militare in Iraq con i fondi della cooperazione internazionale. Di quel tentativo è rimasto però nella legge il titolo che lo giustificava; ora anche il secondo decreto-legge che finanzia l'intervento in Iraq si ostina a ripetere all'articolo 1 che i soldi servono a finanziarie una "missione umanitaria e di ricostruzione dell'Iraq".

Mille miliardi di vecchie lire (e carabinieri in meno in Italia). Ad ogni modo, quello delle missioni internazionali è un capitolo importante, sia sul piano politico che sul piano finanziario.
Vale la pena richiamare anche la questione dei soldi. Il decreto comporta una spesa di 527 milioni e mezzo di euro. Sono mille miliardi delle vecchie lire. Questo è quanto pagano gli italiani. I cittadini hanno quindi titolo di intervenire su questo argomento, di valutarne la congruità, anche in riferimento alle esigenze di carattere generale.
Anche perché la spesa non è solo questa. Con l'articolo 13 del decreto si attingono euro dai fondi del programma di sostituzione dei carabinieri ausiliari con personale in ferma quadriennale, previsti dalle finanziarie per il 2002 e per il 2003. I cittadini quindi pagano un mancato adeguamento degli organici dei carabinieri per la sicurezza interna.

L'interesse nazionale è nella pace. Una spesa così significativa merita in Parlamento un dibattito puntuale, che la valorizzi a pieno nell'interesse nazionale: interesse nazionale che è principalmente quello di poter vivere in un pianeta meno violento, più pacificato.
È questa la "missione" che i cittadini italiani affidano ai loro militari impegnati nelnel mondo; non è la "grandezza" internazionale dell'Italia; non è la possibilità di sedere al tavolo di chi è più forte o vincitore. La missione dell'Italia è la pace per molti popoli e quindi anche per sé; l'onor di patria è lavorare per la pace.
I nostri militari sono apprezzati dai loro concittadini e da milioni di altri cittadini del mondo perché hanno questa missione, perché operano avendo come riferimento una Costituzione repubblicana che al suo articolo 11 ripudia la guerra come strumento di soluzione delle controversie. Se il governo porta i militari italiani fuori da questa loro missione, fa prima di tutto male a loro, alla loro specializzazione, alla loro vocazione.
In molte parti del mondo. Noi siamo accanto ai nostri militari. Abbiamo onorato, con angoscia, la morte di un gruppo di loro a Nassiryia. Siamo vicini a coloro che sono rimasti in Iraq, a quelli che hanno sostituito i caduti.
Siamo vicini agli italiani che sono nei Balcani, a quelli che sono in Palestina, a chi è rimasto in Afghanistan.
Sappiamo che fanno il loro lavoro con dedizione e professionalità.
Anche per rendere giustizia a tutte queste persone che a nome dell'Italia partecipano a missioni internazionali, ho ieri sollecitato il governo e la maggioranza a scegliere il percorso legislativo già positivamente sperimentato sei mesi fa, distinguendo la spedizione in Iraq, che è la meno tradizionale dal punto di vista operativo e la più discussa politicamente, dalle altre missioni.
Ribadisco la proposta e alle motivazioni già espresse aggiungo ora questa: la distinzione evita che l'intero dibattito sia incentrato sul contingente italiano in Iraq, consente di approfondire i compiti attuali e soprattutto le possibili evoluzioni delle altrettanto importanti missioni italiane in altre zone del pianeta.

L'Africa come frontiera europea della pace. Cito per prima, così non stabilisco graduatorie, la più piccola partecipazione italiana: appena tre persone dell'Esercito che collaborano al monitoraggio sul rispetto dell'Accordo sottoscritto nel gennaio del 2002 tra il governo sudanese e l'esercito del Sudan's People Liberation Movement e al controllo della smobilitazione delle truppe sui Monti Nuba tra Somalia e Sudan.
Parto da qui perché l'Africa è il continente nel quale l'Italia, nell'ambito dell'Unione Europea, è chiamata a pianificare e a svolgere azioni di "pace preventiva", mettendosi a disposizione delle comunità africane prima che contrasti storici o nuove dislocazioni internazionali trascinino il continente in una condizione endemica di guerra. Ad esempio, proprio in Sudan, c'è preoccupazione per la regione di Darfur e in particolare per la situazione umanitaria; l'Unione europea ha chiesto alle parti di cooperare per attuare l'accordo tripartito firmato il 3 settembre ad Abeche (in Ciad), per garantire la protezione della popolazione civile e per permettere un accesso senza ostacoli della popolazione all'aiuto umanitario.
Nel Corno d'Africa l'Italia è presente anche alla missione militare di pace in Etiopia ed Eritrea, organizzata dalle Nazioni Unite.
Il gruppo Margherita-L'Ulivo chiede al governo italiano di essere propositivo nelle iniziative di pacificazione africana e di farsene promotore in sede europea.

Cresce il ruolo dell'Europa, ma non per il governo. Il tema della politica di sicurezza comune (Pesc) e della politica di sicurezza e di difesa europea (Pesd) non è presente nella relazione che accompagna il disegno di legge e non è stato citato neppure dai due relatori. È una dimenticanza politicamente significativa, anche perché è proprio l'impegno dei nostri militari che consente una presenza italiana ed europea in numerosi scacchieri in tutta l'area dei Balcani.
Mi pare giusto evidenziare la progressiva evoluzione della presenza europea in alcuni di questi scacchieri, con particolare evidenza in Macedonia. Qui abbiamo ormai da un anno la prima missione internazionale a guida dell'Unione Europea, alla quale collaborano i 15 paesi dell'Unione e 18 paesi non europei. Da poco più di un mese è stata poi formalizzata la missione Eupol Proxima, missione delle Forze di polizia europee in ex Jugoslavia e Macedonia.

Lo statuto europeo del personale militare e civile. Si tratta di una evoluzione importante dal punto di vista politico, ma anche sul piano organizzativo e gestionale. Il consolidarsi di operazioni militari sotto il comando dell'Unione Europea pone ad esempio un tema molto concreto: quello dello statuto del personale militare e civile.
Nella Gazzetta Ufficiale C/321 del 31 dicembre 2003 è stato pubblicato l'accordo tra i paesi dell'UE sullo statuto del personale civile e militare distaccato presso le istituzioni europee, presso i quartier generali e le forze messe a disposizione dell'UE per preparare o attuare missioni. Esso contiene disposizioni generali per tutto il personale civile e militare e specifiche disposizioni proprio per il personale militare e civile inviato nelle istituzioni comunitarie od assegnato ai quartier generali delle forze armate.
Di questo accordo non c'è citazione nella parte del decreto che riguarda il personale. Eppure il decreto è posteriore all'Accordo e posteriore alla sua pubblicazione. È indispensabile che i contenuti di quell'accordo siano applicati a tutte le persone italiane che partecipano a missioni a comando Ue, per evitare che ci siano disparità tra chi è distaccato a Bruxelles e chi è inviato in Macedonia o nella ex Jugoslavia. Questo potrebbe all'inizio creare magari delle differenze tra missione e missione internazionale, ma riteniamo prevalente l'impegno a realizzare fin dall'inizio regole comuni per tutti i cittadini europei in forza all'Unione, sperimentadole ed adattandole finché riguardano casi limitati e prima che si creino incrostazioni e privilegi.

Allargare l'Albania all'Europa. Il secondo tema che pongo - sempre nell'ambito dell'apporto dell'Italia alla politica europea di sicurezza e di difesa - riguarda l'Albania.
In Albania l'Italia è impegnata direttamente in tre missioni, che derivano tutte alle scelte fatte dai governi dell'Ulivo con l'approvazione di tutto il Parlamento. La più antica è Albania 2, che risale al 15 aprile 1997 e che prevede la collaborazione della Marina italiana per la sorveglianza delle acque territoriali ed interne albanesi per prevenire l'immigrazione illegale. La seconda è dello stesso anno 1997, ma dell'ottobre, per lo sviluppo della cooperazione tra forze di polizia italiane in Albania e nei Paesi dell'area balcanica, con lo scopo di addestrare le forze di polizia albanesi. Albit è la missione più recente (risale al 6 aprile 2000) e consiste in una cooperazione con l'aeronautica albanese per la ristrutturazione della scuola di volo di Valona.
Le utili esperienze ed i positivi risultati di queste missioni ne suggeriscono - ed è questa la nostra proposta - il trasferimento all'interno di iniziative europee, in modo da trasformare la collaborazione bilaterale tra Italia ed Albania in un impegno complessivo dell'Europa. Questo non per dividere i costi, ma per riaffermare che le politiche che svolgiamo sono fatte a nome dell'Unione Europea e della sua sicurezza.
Questa evoluzione delle missioni albanesi sembra quanto mai necessaria e dovrebbe essere intrapresa tempestivamente anche nell'ambito della forza europea di polizia di frontiera che pure l'Italia ha sostenuto sia prima che durante la sua Presidenza del Consiglio europeo.

Missioni civili e non solo missioni militari. Le caratteristiche sia delle missioni italiane in Albania che delle prime due missioni europee in Macedonia, indicano inoltre che sono maturi i tempi per la revisione sostanziale delle nostre missioni internazionali. Questa revisione corrisponde del resto alla evoluzione delle politiche europee in materia, di cui si è fatta carico la Presidenza irlandese dell'Unione, tra le cui priorità c'è lo sviluppo di capacità civili dell'Unione Europea.
Nel capitolo del suo programma "Europeans-Working Together" dedicato alla politica europea di sicurezza e di difesa, la presidenza irlandese afferma che lo sviluppo delle capacità civili costituisce per lei "una priorità particolare" nel primo semestre del 2004. Infatti, osserva il programma, "se le operazioni dell'Unione devono contribuire alla stabilità e alla sicurezza a lungo termine, dobbiamo vedere al di là degli interventi puramente militari". Inoltre, l'Irlanda avverte che "le società, in una situazione postbellica, hanno bisogno di aiuto per la polizia, il ripristino dello Stato di diritto e l'insediamento dell'amministrazione civile".
La presidenza irlandese, per la quale "la capacità dell'Unione di prevenire e di gestire le situazioni di conflitto al di fuori dei propri confini costituisce un aspetto fondamentale di un impegno coerente ed efficace nel mondo", assicura che si adopererà ad "agevolare lo sviluppo ulteriore delle capacità dell'Unione, tanto civili, quanto militari, ai sensi della Pesd".
L'Irlanda, paese neutrale, ha un'ottima esperienza in materia di mantenimento della pace sotto l'egida delle Nazioni Unite. Durante il semestre in cui esercita la presidenza dell'Unione saranno in atto diverse operazioni e, specialmente in campo civile, le missioni di polizia in Bosnia e nell'ex Repubblica jugoslava di Macedonia. Inoltre, inizieranno i preparativi in previsione dell'operazione dell'Unione europea, che dovrà sostituire la Sfor, missione di stabilizzazione della Nato in Bosnia e in Erzegovina, autorizzata dalle Nazioni Unite. "Sarà una missione importante per l'Unione; la Sfor è un'operazione notevolmente più ampia e complessa di qualsiasi altra intrapresa finora ai sensi della Pesd", osserva la presidenza dell'Unione, indicando che "il coordinamento civile e militare sarà particolarmente importante in questo contesto". Ricordo che la Nato ha iniziato a prepararsi per ridurre il numero degli effettivi della Sfor, portandoli da 11.900 a circa 7.000 entro il mese di giugno 2004.
Di questa evoluzione, che è nella essenza delle missioni internazionali italiane e che appartiene all'attuale programma dell'Unione Europea, non c'è traccia né nel dispositivo del decreto legge né nella relazione che lo accompagna. Eppure il programma irlandese era ben noto al governo italiano al momento della stesura del decreto.
Noi poniamo fin da ora il tema di questa evoluzione della capacità civili internazionali dell'Italia nell'ambito dell'Unione Europea e ci aspettiamo che nel prossimo provvedimento legislativo (non dovrebbe trattarsi di un decreto ma finalmente di una legge annuale ordinaria) si avvii in forma coerente con i contenuti delle missioni la distinzione fra capacità civili e capacità militari.

Nessuna ragione per cambiare il voto negativo sull'Iraq. Ho offerto solo alcuni spunti per una discussione, un ammodernamento, una nuova iniziativa dell'Italia nelle missioni internazionali che l'impegno delle persone italiane impegnate in queste missioni rendono possibili, anzi esigono. Essi meritano una discussione. Meritano l'attenzione del Parlamento.
Meritano attenzione tanto quanto l'intervento in Iraq.
Noi, questa missione, non l'abbiamo ritenuta giustificata e giustificabile al momento dell'avvio. Abbiamo votato "no" sei mesi fa. Riteniamo che le condizioni che allora portarono il gruppo della Margherita-L'Ulivo a votare contro la presenza militare italiana in Iraq non siano mutate; semmai si sono aggiunte ulteriori motivazioni alla nostra contrarietà.
Il nuovo decreto, con la distribuzione delle risorse finanziarie tra i due articoli che direttamente intervengono sulla presenza italiana in Iraq, conferma la assoluta improprietà della definizione di "missione umanitaria". Le iniziative dell'articolo 1, che riguardano l'aiuto umanitario e il sostegno alla ricostruzione, prevedono una spesa di 11 milioni e 627.450 euro. Le iniziative previste dall'articolo 2, relative alla partecipazione alle operazioni militari in Iraq, prevedono una spesa di 209 milioni 17.084 euro. Bastano queste due cifre, la proporzione fra di loro, per evidenziare l'effettivo obiettivo del governo italiano con la presenza in Iraq.
Aggiungo una nota: gli 11 milioni di euro destinati alla ricostruzione pagano anche i quaranta funzionari italiani che sono all'interno dell'Autorità americana; insomma, servono a finanziare gli Stati Uniti.

L'errore della Coalizione dei volonterosi. Il governo italiano ha voluto partecipare militarmente alla Coalizione dei volonterosi e non avendolo potuto fare prima della caduta di Saddam Hussein, lo ha fatto dopo: illudendo che si trattasse di un dopoguerra e che la situazione effettiva sul campo avrebbe di fatto portato i militari italiani in uno scenario per loro tradizionale, quello della ricostruzione del paese e della pacificazione interna. L'illusione è stata spazzata via dal tragico boato di Nassiriya.
Avevamo detto sei mesi fa che la caduta di Saddam segnava solo un capitolo di una guerra che poteva diventare un altro Vietnam. Avevamo detto che l'applicazione della teoria della guerra preventiva avrebbe avuto conseguenze gravi per il mondo, per l'Europa, per la Coalizione. Avevamo detto che bisognava restituire autorità e capacità operative alle Nazioni Unite.
Invece le Nazioni Unite sono state messe nella condizione di abbandonare il Paese perché non sufficientemente sicure. Altri organismi sopranazionali, come la Croce Rossa internazionale hanno rinunciato al loro impegno per la prevaricazione del governatore americano. Solo di fronte al prezzo tragico dei morti quotidiani Bush è tornato a bussare alle Nazioni Unite.
John Kerry, che in questo momento è il più votato tra i candidati democratici alla Casa Bianca e che potrebbe essere il prossimo presidente degli Stati Uniti, nell'intervista pubblicata dalla Stampa del 27 gennaio ha detto che "l'Amministrazione Bush ha condotto la politica estera più arrogante che abbia visto in vita mia: io penso che gli Stati Uniti debbano tornare ad essere giusti, oltre che potenti".
Si tratta di una politica di cui gli americani ora conoscono un tragico, quotidiano costo. Un costo che la cattura di Saddam Hussein non ha reso meno salato.

Il Codice penale militare di guerra. Ora è probabile che proprio questo costo abbia fatto cambiare strategia all'amministrazione americana e stia alla base del tentativo di anticipare il passaggio delle consegne dall'Autorità americana ad un governo iracheno.
Ma come avverrà questo passaggio; chi lo gestirà: solo gli americani e gli inglesi, come hanno gestito la ricostruzione escludendo chi era contrario alla guerra preventiva? Come si scegliere il governo. Sono effettivamente possibili elezioni in Iraq?
Quali sono i diritti dei cittadini iracheni?
Al riguardo richiamo l'attenzione sull'articolo 12 del decreto-legge, sull'ulteriore modifica episodica del codice penale militare di guerra, che viene adattato alle contingenze senza un quadro organico e soprattutto senza un riferimento complessivo alla normativa internazionale e alle regole del Tribunale penale internazionale, cui l'Italia e l'Europa hanno dato un contributo essenziale.

Il bisogno di multilateralismo. Il punto centrale, al quale l'Italia non ha voluto collaborare in questi mesi è il ripristino del multilateralismo ed in particolare dell'autorità della Nazioni Unite.
E non si può aspettare questo che accada spontaneamente. Né si può pensare che il ritorno al multilaterismo possa essere rinviato a dopo l'insediamento di un nuovo governo iracheno.
Le scelte sono urgenti. Ha detto ancora John Kerry: "Farei subito dei gesti di apertura, riportando la crisi irachena nell'ambito dell'Onu. Le Nazioni Unite, l'Europa ed i Paesi arabi confinanti non hanno interessi strategici diversi dai nostri. Il problema è come raggiungere l'obiettivo di stabilizzare il Paese. Io penso si debba fare quello che era necessario fare fin dall'inizio: coinvolgere la comunità internazionale, l'Onu, gli alleati e dare loro responsabilità effettive nella ricostruzione".
Ci sono dunque questioni militari, questioni di sicurezza delle persone italiane impegnate in Iraq, ma ci sono anche scelte politiche, c'è una analisi delle vie d'uscita che occorre fare. Tutto questo suggerisce di affrontare da parte italiana la questione-Iraq con uno specifico e complessivo strumento legislativo.

L'Italia deve uscire dalla Coalizione dei volonterosi. Finché resta nella Coalizione dei volonterosi l'Italia non riuscirà a dare nessun contributo nella direzione indicata da Jhon Kerry. Infatti non è riuscita a darlo neppure come presidente di turno dell'Unione Europea; anzi la conclusione della sua presidenza è la formale esclusione dell'Italia dal direttorio dei quattro paesi più grandi dell'Unione. Francia, Germania e Regno Unito lavorano da soli. Se - solo per restare nella materia oggetto di questo decreto - ricordiamo che la politica estera e di sicurezza comune e in particolare la Difesa europea hanno preso forza proprio da accordi tra Francia e Regno Unito e tra Francia e Germania, c'è da preoccuparci anche per il futuro del ruolo politico delle nostre missioni internazionali.
Questa sì è una offesa all'impegno dei nostri militari nel mondo ed a quelli che ora sono in Iraq.
Questi nostri militari sono gli unici che nel periodo natalizio non hanno ricevuto la visita del loro capo del governo. Si è trattato di una decisione che non condividiamo, che riteniamo ingenerosa nei confronti dei militari, ma soprattutto di una decisione che li ha resi meno "importanti" agli occhi degli altri contingenti.
La nostra distanza politica dal governo e dalla decisione di inviarli in Iraq, non riduce invece la vicinanza dell'Ulivo al loro impegno e al rischio che corrono.

As 2700.Conversione in legge del decreto-legge 20 gennaio 2004, n. 9, recante proroga della partecipazione italiana a operazioni internazionali
Intervento in discussione generale / Commissioni Esteri e Difesa riunite del Senato
28 gennaio 2004


6 febbraio 2004
sd-111
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Tino Bedin