VECCHIAIA

La pandemia svela che la non autosufficienza da età non può essere trattata come una condizione personale e familiare
La fragilità dei grandi vecchi
è una questione pubblica

Ci siamo impegnati ad invecchiare e ci siamo riusciti non come singoli,
ma come comunità

di Tino Bedin

Il Covit-19 sta scegliendo le sue vittime tra i vecchi, anzi tra i più vecchi tra i vecchi.
L'Organizzazione mondiale della Sanità ha elaborato i dati sull'epidemia in Cina, che descrivono questa situazione: tra i colpiti dal coronavirus la mortalità, che è inferiore all'1 per cento nelle persone di età fino a 50 anni, accresce progressivamente all'aumentare della fascia d'età fino a valori dell'8 per cento fra i 70 e 79 anni e del 14.8 per cento negli ultraottantenni. Il Veneto conferma questa caratteristica della pandemia. Marcello Rattazzi e Carlo Agostini, entrambi professori di Medicina interna all'Università di Padova, hanno analizzato le morti per Covid-19 all'ospedale Cà Foncello di Treviso: l'età meda dei pazienti deceduti è di 85,7 anni.
Invitabile quindi che il rapporto del 16 marzo dell'Istituto Superiore di Sanità prescriva che "nell'ambito delle strategie di prevenzione e controllo dell'epidemia da virus SARS CoV-2 è necessaria la massima attenzione nei confronti della popolazione anziana. Le persone anziane sono la popolazione fragile per eccellenza che bisogna proteggere in tutti i modi nel corso dell'epidemia di COVID-19".

Lunga vita ai veneti. Ci siamo impegnati ad invecchiare e ci siamo riusciti. Noi italiani siamo tra i più longevi al mondo: primato di cui le statistiche ci rendono fieri e la vita personale fiduciosi. Noi veneti contribuiamo positivamente a questo primato.
A metà dello scorso gennaio, quando la vecchiaia non era statisticamente collegata alla morte, ma alla speranza di vita, alla fragilità e magari alla solitudine, le organizzazioni sindacali dei pensionati del Veneto hanno illustrato nelle varie province della regione la fotografia statistica che avevano scattato alla vecchiaia, utilizzando anche il… teleobiettivo delle previsioni.
Spi-Cgil, Fnp-Cisl e Uilp hanno fatto vedere intanto che nella nostra regione gli ultrasessantacinquenni sono 1 milione e 122.005, mentre gli ultraottantenni hanno raggiunto quota 347.165. Davvero una bella fetta della popolazione: nel decennio 2008-2018 la percentuale degli anziani in Veneto è passata dal 19,5 al 22,6 per cento. Le donne continuano a portare il loro contributo decisivo al primato: se nella fascia 65-74 anni in Veneto le donne sono il 52,40 per cento, in quella 75-84 anni la percentuale sale a 57,10 per poi impennarsi al 70,3 per cento nella fascia 85-94 anni e aumentare ancora quando si contano i centenari.
E noi veneti non abbiamo intenzione di fermarci qui. Secondo il teleobiettivo statistico: nel trentennio tra il 2018 e il 2048 l'aspettativa di vita passerà che oggi per gli uomini è di 81,6 anni e per le donne da 85,9 anni, passerà per gli uomini a 85,6 anni e per le donne a 89, 2 anni.
Abbiamo imparato ad invecchiare e anche a cavarcela discretamente. La fotografia del Sindacato ci fa vedere ad esempio 208.277 ultraottantenni che vivono da soli: due su tre dei veneti che hanno dagli ottant'anni in su stanno per conto proprio, certo con la "sorveglianza" attiva di figli o nipoti. Sanno cavarsela, anche per tre su quattro di queste persone sono donne.
Anche come salute i grandi vecchi del Veneto si difendono discretamente: tre su quattro sono autosufficienti, visto che gli ultraottantenni riconosciuti come invalidi civili e quindi non autosufficienti parzialmente o totalmente sono circa 83 mila, cioè un quarto del totale.

Quelli delle pluripatologie. Un grande vecchio su quattro malandato in salute è comunque un problema: per sé, per la sua famiglia, per l'organizzazione sociale. I problemi della non autosufficienza da età non hanno ancora una soluzione adeguata, neppure in Veneto.
Con la pandemia questo problema rischia di essere risolto dalla morte.
Sia perché è vero, sia per non far andare nel panico tutti i vecchi d'Italia, la morte da coronavirus è raccontata sì come una questione da vecchi, ma da vecchi con pluripatologie, cioè carichi di acciacchi. In queste settimane il Covid-19 ha arricchito il vocabolario collettivo di parole prima usate prevalentemente in singole comunità. La malattia ad esempio è ora per tutti una "patologia" e di "pluripatologie" parliamo ormai tutti come fossimo medici o infermieri.
È vero che contano le pluripatologie e che non si muore solo di coronavirus. Ho già citato la analisi fatta dai professori Marcello Rattazzi e Carlo Agostini, che a proposito dei morti all'ospedale Cà Foncello di Treviso annotano: "Se consideriamo le comorbidità presenti in questa popolazione si rileva come l'82.6% fosse affetto da precedenti patologie cardiovascolari (inteso come pregresso infarto del miocardio/ictus/scompenso cardiaco), il 47.8% fosse diabetico, il 26.1% con patologia tumorale attiva e il 13% affetto da Bpco, inoltre il 47.8% presentava una storia clinica di decadimento cognitivo/demenza con sindrome di allettamento. Nessuno dei pazienti era solamente Covid-19 positivo senza presenza di comorbidità". In sintesi: "L'epidemia di Covid-19 si è quindi inserita in una popolazione anziana già portatrice di caratteristiche cliniche che ne giustificano la mortalità". Persone che aspettavano la morte, dunque; forse non subito.

Al funerale stando a casa? Certo non pensavano di morire così: senza toccare con la mano un familiare, senza guardare in silenzio i volti della loro vita; e poi senza un funerale, senza sapere chi continuava a ricordarsi di te. La messa di settimo non ci sarà e forse neppure quella del trigesimo. Morti soli; famiglie che non seppelliscono i loro morti. È un'esperienza che durerà nella memoria: ricorderemo che c'è stata una forza incontrollabile che ci costretti alla disumanità.
Intanto, potremmo come comunità fare qualcosa? Potremmo dare un volto ai numeri dei morti che ogni mezzogiorno e sera entrano nelle case dei veneti? Potremmo andare al funerale stando a casa?
Ho letto che l'Eco di Bergamo, il quotidiano della città più colpita dalla pandemia, ha superato in questi giorni le dieci pagine di necrologi. Da noi non la tradizione del necrologio non è così diffusa, anche per il costo. Potremmo però fare una eccezione in questo periodo: se i due giornali locali decidessero di offrire gratuitamente uno spazio alle necrologie delle vittime del coronavirus, potrebbero aiutare le comunità locali a ritrovarsi sul giornale (invece che in chiesa) per una preghiera o per un ricordo personale o per un commento poi da diffondere al telefono.
Oppure potrebbero le parrocchie e i comuni allestire nei loro siti internet le pagine dei necrologi delle loro comunità, con l'aiuto delle imprese funebri; gratuiti ovviamente anche questi. Potrebbero essere pagine che diventano stabili nei siti di comuni e parrocchie, anche quando - a Dio piacendo - i morti potremo benedirli in chiesa e salutarli in cimitero.

L'archivio comune di vittorie e sconfitte. Dovrà pur costruire qualcosa di buono nel tempo anche questa ondata di morte e di paura. Per esempio, ridurre la fragilità di un numero importante di grandi vecchi e attenuare la fragilità psicologica ed economica che la non autosufficienza da età produce in migliaia di famiglie del Veneto, che sopportano costi elevatissimi per la casa di riposo o per l'assistenza a domicilio.
Finora queste fragilità sono sulle spalle dei grandi vecchi e delle loro famiglie. Lo stiamo constatando proprio nella pandemia: le strutture sanitarie non sono a loro misura, cioè a misura della loro condizione e del loro numero; l'organizzazione di protezione non solo non arriva nelle abitazioni ma sta faticando ad arrivare addirittura nelle case di riposo, evidentemente considerate "luoghi privati", mentre sono pubblici per il servizio indispensabile che svolgono e in molti casi sono pubblici anche per natura giuridica.
Non si tratta solo di una doverosa attenzione a chi ha difficoltà, perché la vecchiaia è non solo una condizione individuale, ma anche una ricchezza comunitaria. Ci siamo impegnati ad invecchiare e ci siamo riusciti come società, non per sfidare la vita e la morte, ma per garantirci la memoria comune, per allargare l'archivio delle vittorie e sconfitte collettive.
Per intanto nel confinamento cui Covid-19 costringe tutti, ad ogni età, un'esperienza da provare sarà quella che lo scrittore statunitense Ray Bradbury affida alle pagine di Addio all'estate: "Sono sempre stato affascinato dai vecchi, queste speciali macchine del tempo. Entravano e uscivano dalla mia vita e io li inseguivo, li interrogavo, imparavo da loro. Molte delle mie grandi amicizie sono state con uomini e donne ottantenni, novantenni: sono sempre stato felice di far loro domande, stavo seduto in silenzio, limitandomi ad imparare dalle loro risposte". Farà bene ai grandi vecchi sentirsi utili vivendo; farà bene ai più giovani sentirsi discepoli di vita ascoltando. Ovviamente al telefono.

18 marzo 2020


2 aprile 2020
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