Cari amici,
Romano Prodi è venuto all'assemblea dei senatori dell'Unione martedì 9 novembre nell'aula della Difesa del Senato con due tracce di appunti: una sulla legge elettorale, l'altra sulla legge finanziaria. È quasi impercettibile il suo disappunto, quando diventa evidente che i senatori lo hanno chiamato solo per la Finanziaria. Gira via le pagine dei suoi pensieri sulla legge elettorale con dispiacere, con titubanza, ed utilizza quelle sulla Finanziaria.
Gli ultimi giorni della Destra. Prodi interviene sui contenuti e sulle conseguenze delle scelte economiche di Berlusconi e di Tremonti; completa le analisi fatte dai senatori; le arricchisce della strategia di governo necessaria per riportare a galla la produzione nazionale le finanze pubbliche. Sa di avere credito in Europa e dice che nessuno ci chiederà di "pagare" tutto e subito, a condizione che dimostriamo di voler stare ai patti. Sottinteso: il credito non ce l'ha Berlusconi. Si accalora a proposito della situazione delle grandi periferie urbane, non solo per difendersi dall'accusa di menagramo, che gli è piovuta dal centrodestra, ma per condividere con i senatori dell'Unione questa sua preoccupazione, questa sua priorità per il governo che verrà. Se verrà.
Ma il pensiero principale di Prodi anche martedì mattina nell'aula della Commissione Difesa del Senato è per la legge elettorale e trova comunque il modo di ricordarlo a noi senatori: ci invita ad un'opposizione dura quando - passata la Finanziaria, votata la riforma costituzionale in ultima lettura - diventerà di attualità proprio la legge elettorale.
Certo è questione di giorni. Fra due, tre settimane la Destra avrà danneggiato ulteriormente i conti pubblici, rovinato la Costituzione repubblicana, buttato nella pattumiera il referendum sul maggioritario e la vita politica che ad esso è seguita.
Per i pendolari dei treni tempi ancora più duri. QPer ora noi senatori dell'Unione abbiamo tuttavia la Finanziaria a cui badare. Ci lavoriamo da settimane: abbiamo discusso nelle commissioni, poi ci sono stati gli emendamenti studiati per la Commissione bilancio, ora il dibattito nell'Aula; un lavoro meticoloso, attento, di cui gli italiani non si stanno accorgendo.
Non è "l'oscurità" dell'opposizione che ci preoccupa: dopo quasi cinque anni convissuti con una maggioranza tanto ampia quanto dipendente dal governo, questa è la preoccupazione minore. È che la manovra imbastita da Berlusconi con Tremonti è in ordine di grandezza al terzo posto nella storia italiana per sacrifici richiesti agli italiani. Originariamente prevedeva 11,5 miliardi di tagli di spesa per riportare il deficit al 3,8 per cento, altri tagli per 4,5 miliardi per garantire spese inderogabili e 4 miliardi e mezzo di nuove tasse. A tutto ciò, tagliando e rammendando, si sono aggiunti 5 miliardi di tagli e di altre tasse. Peserà soprattutto l'aumento della pressione fiscale sulle imprese e la riduzione della spesa sociale degli enti locali per 3 miliardi.
Gli effetti della "finanziaria-pappataci" rischiano, inoltre, di essere recessivi, anche perché mancherà il contributo degli investimenti pubblici. Si rinvia, infatti, al 2009 l'erogazione di cassa di 19 miliardi delle Ferrovie dello Stato. Penso ai pendolari che da Cittadella e da Montagnana prendono treni che troppo spesso si fermano: con cosa viaggeranno? L'Anas potrà spendere solo 1 miliardo e 700 milioni e fra sei mesi dovrà fermare i cantieri. Si bloccano fino al 2009 15 miliardi di fondi europei ed altrettanti di cofinanziamento statale. Il rilancio degli investimenti sarà compito, arduo, di chi verrà dopo le elezioni.
Questa enorme mole di sacrifici non è però di attualità. Sarà perché una buona parte di italiani si è convinta che la situazione per quanto grave, non è mai seria finché ci sono Berlusconi, Casini, Bossi e Fini. Sarà per la più semplice ragione che non se ne parla. Per questo noi senatori dell'Unione abbiamo chiamato Romano Prodi, sia per precisare la linea comune, sia con la speranza che se ne parla lui, forse i giornali diranno qualcosa del lavoro dell'opposizione al Senato. E soprattutto metteranno in guardia gli italiani da questa "finanziaria-pappataci", che succhia i soldi in silenzio.
Ma era destino: tutto si svolge in un giorno di sciopero dei giornalisti.
La "paghetta" per i senatori di maggioranza. I giornalisti, da parte loro, non hanno tutti i torti a non dare importanza alla Finanziaria. L'informazione più attenta sa già che questa presentata al Senato dal governo è una Finanziaria di prova, scritta per rispettare i tempi, ma non definitiva.
Sa che il Senato non conta nulla. E i senatori di maggioranza fanno di tutto per suffragare questa tesi: portano in Aula la Finanziaria così come l'ha proposta il governo, neanche un cambiamento. Mai successo. Bisogna aspettare che il governo metta la fiducia su un testo riscritto, bisogna affidarsi al buon cuore di Berlusconi per vedere in Finanziaria le speranze dei senatori della maggioranza. Letteralmente di buon cuore il governo dà prova per i senatori della maggioranza: messo da parte un bel gruzzolo di milioni per le "grandi opere" del Capo, ecco la "paghetta" di un bel po' di milioni di euro per le "piccole opere" di ciascun parlamentare nel suo collegio; così a caso, basta che il senatore di oggi sia il candidato di domani.
Soldi di tutti spesi male, non solo perché queste "mance" elettorali sono a scapito di altri territori e di altri comuni (che nel loro insieme ricevono da Berlusconi, Tremonti e Bossi un altro furto di risorse). Sono spesi male anche perché i senatori destinatari della mancia alle prossime elezioni si ritroveranno senza collegio, anzi senza nome sulla scheda. Così vuole la riforma elettorale votata dalla Camera e che gli stessi senatori di maggioranza si apprestano a convalidare al Senato.
La legge per "la riduzione del danno" elettorale. Vuoi vedere che aveva visto giusto Romano Prodi, che parlare di legge elettorale non era poi fuori posto nell'incontro con i senatori dell'Unione sulla legge finanziaria?
Il suo concetto l'ha espresso chiaramente e si può sintetizzare così: "È una legge vergogna che manda all'aria il Paese per il guadagno di una maggioranza che diventa minoranza". Questo preoccupa Prodi: che chiunque governi con un Parlamento prodotto da questa deformazione elettorale non sia nelle condizioni di rispondere alle sfide dello scenario mondiale, che i cinque anni di governo ideologico e privatistico della Destra rendono in Italia molto più difficili che nel resto d'Europa.
Nel suo invito "Dobbiamo ribellarci" c'è anche la volontà di contrastare la componente ideologica, che nella riforma elettorale è evididente come in tutte le decisioni della Destra di governo. Certo la nuova legge corrisponde principalmente alla filosofia della "riduzione del danno": evitare che il consenso di cui gode Romano Prodi si tramuti in un disastro elettorale delle dimensioni almeno pari alla maggioranza di cui la Destra ha usufruito con il sistema maggioritario in questa legislatura. Ma la legge è sostenuta anche da chi progetta il "centro" della politica italiana, da mettere a disposizione a risultato elettorale conseguito del vincitore, naturalmente non gratis.
Si tratta di un ritorno indietro nelle scelte pubbliche, contro il quale Prodi intende lottare perché è dannoso al governo delle istituzioni e perché blocca il processo di trasparenza delle decisioni politiche, di cui c'è bisogno per mantenere elevato l'interesse e, quindi, il controllo dei cittadini sulla loro Repubblica.