Cari amici,
il 54,87 per cento di "no" e il 45,13 per cento di "sì" con un tasso di partecipazione del 69,74 per cento: la decisione del popolo francese al referendum del 29 maggio sul Trattato costituzionale europeo è chiaro. Il presidente Chirac infatti ne ha tratto subito alcune conseguenze per il suo governo.
Sul piano europeo, il presidente del Parlamento europeo, Josep Borrell, quello del Consiglio europeo, Jean-Claude Juncker, e quello della Commissione europea, José Manuel Barroso, in una dichiarazione comune, hanno affermato che le istituzioni europee dovranno "riflettere, al momento opportuno, sui risultati dell'insieme del processo di ratifiche". Il Consiglio europeo dei 16 e 17 giugno valuterà la situazione (a quel momento, disporrà anche dei risultati del referendum olandese del 1° giugno). La ratifica del Trattato costituzionale deve continuare, ha detto il primo ministro lussemburghese, affermando che sarà "impossibile rinegoziare il trattato". Su questa linea appaiono le istituzioni europee e si è messo subito anche il ministro degli Esteri italiano Gianfranco Fini. La maggioranza degli Stati membri non ha ancora infatti avuto modo di portare a termine il processo di ratifica.
È possibile e giusto continuare? Davvero sarà possibile continuare in Europa come se il voto di domenica 29 maggio in Francia non ci fosse stato? E se fosse possibile, sarebbe giusto?
Certo nove Stati membri, che rappresentano quasi la metà (49 per cento) della popolazione europea, hanno già ratificato il trattato costituzionale, in un caso, la Spagna, attraverso un referendum ampiamente affermativo.
Sul piano giuridico la dichiarazione n. 30 allegata al Trattato costituzionale prevede che, se due anni dopo la firma del trattato costituzionale - il 29 ottobre 2004, a Roma - i quattro quinti degli Stati membri avranno ratificato il trattato, mentre uno o più Stati avranno "incontrato difficoltà", "la questione è deferita al Consiglio europeo": quindi, se un massimo di cinque Stati membri avranno respinto la Costituzione.
Sul piano pratico risulterebbe difficile rinegoziare la Costituzione, per prepararne un'altra conforme agli auspici della Francia. Tra i francesi che hanno detto no, ci sono quelli che vogliono fermare tutto e quelli che vogliono andare più lontano. Difficile mettere d'accordo queste concezioni dell'Europa. Impossibile, quindi, rinegoziare il trattato in queste condizioni.
Le difficoltà non sono diplomatiche. Tutto vero. Come è vero quanto hanno dichiarato i presidenti delle istituzioni dell'Unione subito domenica sera: "Continuiamo a credere che una risposta al livello europeo rimanga quella migliore e quella più efficace in un contesto di mondializzazione accelerata. La costruzione europea è di per sé complessa. L'Europa ha già affrontato momenti difficili e, ogni volta, ha saputo uscirne rafforzata, migliore di prima, pronta ad affrontare le difficoltà e le responsabilità che le competono. Oggi, l'Europa continua e le istituzioni funzionano pienamente. Siamo coscienti delle difficoltà, ma confidiamo nel fatto che troveremo ancora una volta il modo per far progredire l'Unione europea. Siamo determinati insieme a contribuire a far questo".
Questo progresso dell'Unione Europea non sarà però possibile immediatamente. La gran parte delle difficoltà precedenti era nata, cresciuta nelle trattative tra i governi; e le trattative tra i governi avevano poi potuto superarle.
In questa occasione la difficoltà nasce dai cittadini francesi; a loro si aggiungeranno, secondo previsioni concordi, i cittadini olandesi. Per superarle occorre che l'Europa continui a stare con i cittadini. E questo non è per niente facile.
La prossima trattativa è sui soldi. Al Consiglio europeo del 16 e 17 giugno, cioè all'incontro nel quale si dovrà discutere delle conseguenze del referendum francese e verosimilmente anche del referendum olandese, all'ordine del giorno ci sono le prospettive finanziarie dell'Unione dal 2007 al 2013. Si discuterà cioè di quanti soldi l'Europa avrà a disposizione, di chi dovrà versarli, di come saranno spesi. I governi presenti cercheranno di "sfruttare" al massimo l'Europa, più che rafforzarla.
La Francia, dove il voto dei contadini seguaci di José Bové è stato determinante per il "no", dovrà difendere per principio la Politica agricola comune con le sue spese attuali e future; non ci sarà spazio per una trattativa con chi vuole destinare parte di queste risorse finanziarie ad altri settori.
In queste condizioni, anche per non allarmare ulteriormente le loro opinioni pubbliche, è probabile che i governi dedicano il 16 e 17 giugno a Bruxelles di rinviare ogni decisione. Così facendo però aumenteranno l'incertezza dei cittadini sull'Europa, che è poi l'incertezza degli europei sul loro futuro.
Solo i popoli hanno un cuore. La politica agricola comune non si fermerà: il programma è già stato concordato fino al 2013, ma è appunto il futuro che invece rischia di chiudersi. Non solo per gli europei: uno dei punti di maggiore innovazione del Trattato costituzionale riguarda il rafforzamento della politica estera comune europea, un rafforzamento al quale guardano con interesse e speranza molti popoli, sia confinanti con l'Unione, che lontani, come quelli del Darfur nell'Africa subsahariana.
Noi europei abbiamo assunto molti impegni tra noi, ma li abbiamo presi anche con altri. Oggi l'Europa conta nella vita di chi ci abita e nella vita di chi non ha abbastanza per essere indipendente. Questo è il messaggio del referendum francese. Di fronte a questo risultato non è possibile continuare il percorso che i nostri governi immaginarono a Nizza per arrivare alla prima Costituzione dell'Unione. Pensarono allora di superare le loro difficoltà proponendo un balzo in avanti all'Unione. Capirono che era necessario "lanciare il cuore oltre l'ostacolo". Solo che il "cuore" ce l'hanno i popoli e non le istituzioni. E il cuore del popolo francese è rimasto al di qua dell'ostacolo.