Cari amici,
il decreto legge che proroga la missione "Antica Babilonia"in Iraq è la fotocopia di quello precedente e di quello precedente ancora, come se in questo frattempo ed in particolare negli ultimi sei mesi nulla fosse cambiato, in Iraq e sulla scena internazionale. In esso non si legge nessun contributo dell'Italia al futuro dell'Iraq, quel futuro del quale gli iracheni si sono finalmente riappropriati con la loro partecipazione alle elezioni di domenica scorsa 30 gennaio.
Neppure dopo questo fatto la maggioranza ha accettato di modificare il decreto presentato dal governo, per rendere la presenza italiana almeno coerente appunto con le indicazioni che sono venute dai cittadini iracheni. Resta dunque la presenza militare italiana in un teatro di occupazione conseguente una guerra sbagliata, condotta sulla base di false informazioni, decisa al di fuori di ogni legittimità internazionale.
Sono tutte valutazioni negative che - nonostante la propaganda del governo italiano - il voto degli iracheni non solo non ha modificate, ma ha certificate.
La propapaganda insiste sulla percentuale dei votanti, che è certamente un elemento importante anche dal punto di vista politico. Ma più rilevante è orientamento politico degli elettori iracheni. Fin dai primi dati emerge chiaramente la sconfitta del partito che fa riferimento al capo del governo provvisorio. Nettissima è l'affermazione delle forze che fanno riferimento all'autorità religiosa di Al Sistani. Si tratta di partiti che hanno più volte affermato la urgenza di un'uscita di scena delle forze armate straniere. È molto probabile che dalla prima assemblea elettiva dell'Iraq si alzino presto voci autorevoli per mandato popolare a chiedere il ritiro delle truppe straniere.
Lo stratagemma di "far decidere" al governo iracheno. Poiché questo accadrà nell'arco temporale di validità del decreto legge su "Antica Babilonia", un governo responsabile, un parlamento veramente amico degli iracheni e rispettoso del loro voto, dovrebbe nel delineare le caratteristiche della missione italiana in Iraq indicare già la totale disponibilità italiana ad assecondare la responsabilità degli iracheni sul loro destino. Non basta continuare a ripetere, come fanno i rappresentanti del governo e della maggioranza, che "resteremo in Iraq fino a quando i dirigenti iracheni ce lo chiederanno". Nessun iracheno ci ha chiesto di andare da lui, eppure la Destra vi ha mandato i nostri militari. Ora il governo e la sua maggioranza devono dire, non con dichiarazioni ma con gli atti formali della legge, quale è la loro scelta politica, per quale obiettivo l'Italia si sta impegnando, quali scelte concorrerà a determinare.
Rimettere la decisione agli iracheni è una posizione ambigua sia di fronte agli iracheni sia di fronte agli italiani. Questo trasferimento di sovranità nazionale è uno strattagemma, a cui ricorrono perché non sanno immaginare una autonoma via d'uscita dall'Iraq.
Nelle Commissioni Difesa ed Esteri del Senato ho provato con alcuni emendamenti ad indicare invece le scelte politiche dell'Italia in questo primo semestre del 2005 in Iraq.
Bilanciare spese umanitarie e spese militari. Innanzi serve un più ragionevole bilanciamento delle spese tra gli obiettivi di carattere umanitario e quelli destinati alla sicurezza. La sproporzione resta insostenibile dopo tutti questi mesi che la missione italiana è attiva. Per la missione umanitaria, di stabilizzazione e di ricostruzione dell'Iraq il decreto stanzia 18 milioni e 778 mila euro. Per la partecipazione di personale militare alla missione internazionale in Iraq lo stesso decreto stanzia 267 milioni e 805 mila euro. Vuol dire che ad ogni euro speso per finalità umanitarie, se ne spendono 14 per finalità di sicurezza. Né si dica che le finalità di sicurezza comprendono anche investimenti in infrastrutture: la difficoltà operativa del nostro contingente, di cui la recente morte del maresciallo Simone Cola è stata la tragica conferma basta da sola a limitare moltissimo l'operatività su questo versante dei nostri generosi militari.
Deciso adesso, come segno di novità che tiene conto delle novità irachene, un più equilibrato uso delle ingenti risorse finanziarie che la missione in Iraq richiede potrà costituire l'inizio del cambiamento della nostra presenza accanto al popolo iracheno che le elezioni hanno rivendicato.
Gli iracheni hanno bisogno di vedere il futuro. Gli iracheni, in buona parte ascoltando l'invito del Grande Aytollah Al Sistani, hanno fatto la loro parte andando a votare.
Ora gli Stati Uniti ed i loro alleati devono fare la loro parte a sostegno dell'assemblea costituente e della scelta democratica di una parte rilevante della popolazione: la loro parte sta nella presentazione formale del calendario del loro ritiro dall'Iraq. Un programmato ritiro delle truppe americane è il contributo che gli Usa possono, devono dare alla pacificazione. Non è invece vero il contrario, e cioè che il ritiro delle truppe straniere costituirebbe un problema: è la presenza delle truppe il problema.
Gli iracheni hanno bisogno di vedere il loro futuro. Le loro guide politiche hanno bisogno di poterlo far toccare con mano. Il ritiro delle truppe straniere potrebbe cominciare dalle zone maggiormente pacificate, nelle quali gli Usa e i loro alleati potrebbero concentrare i militari fuori dalle città e dai centri abitati, in modo da anticipare in quelle aree la visione concreta dell'autonomia dell'Iraq da forze straniere.
Questo pre-ritiro interno all'Iraq dovrebbe essere accompagnato dalla precisa dichiarazione che gli americani non intendono conservare per il futuro basi militari stabili in territorio iracheno.
Questa strategia di disimpegno americano è oggi facilitata dalla partecipazione alle elezioni ed è suggerita dal risultato politico del voto. Gorge Bush potrà farvi riferimento per motivare il disimpegno da una guerra che è di mese in mese sempre meno popolare negli Stati Uniti per il costo di vite amate che gli Usa continuano a pagare ed anche per il suo peso sul bilancio federale.
Un termine per la presenza militare italiana. Con il decreto sulla missione in Iraq maggioranza e governo devono mettere anche l'Italia nella condizione di iniziare questo cammino.
C'è dunque la necessità che in questo momento l'Italia individui e stabilisca intanto per sé il percorso che porta ad un cambiamento della situazione sul campo. Questo è il vero tema politico al quale il governo e la maggioranza tentano di sfuggire con la semplice proroga della missione, ma che resta davanti al Parlamento e non solo al Parlamento italiano.
Si può indicare un termine per la nostra presenza militare e quindi di interpretare la proroga della missione come il tempo tecnico e politico necessario per il rientro dei nostri militari.
Si può stabilire la piena disponibilità dell'Italia a collaborare con una forza multilaterale sotto le bandiere dell'Onu. Noi non vogliamo lasciare soli gli iracheni, non vogliamo sottrarci ad un ruolo di pacificatori che ci è stato riconosciuto nel mondo. Penso che sia possibile esercitare questo ruolo anche in Iraq, ma a condizione che esso si svolga sulla base di una scelta delle Nazioni Unite e di un invito successivo dell'Assemblea costituente irachena.
Il "no" per stare a fianco degli iracheni. Governo e maggioranza ripetono una missione come se nulla fosse cambiato. Il voto del centrosinistra ad un decreto fotocopia non può che essere la ripetizione di un no. Con la consapevolezza che in questa occasione alle ragioni di contrarietà derivanti da scelte sbagliate, ne se aggiungono di nuove che riguardano il nostro futuro: di noi italiani a fianco degli iracheni.