
Lettera dal Senato. 53 /5 agosto 2001
Nel 2000 più nascite che negli
ultimi dieci anni
Gli europei investono in bambini
Il Dpef italiano ignora questa tendenza,
nonostante le promesse
 di Tino Bedin
Ritornano le mamme e i bambini in Europa. Nel 2000
l'Unione Europea ha segnato il tasso di fecondità più elevato da dieci anni. La
popolazione dell'Unione è cresciuta di un milione e 53 mila persone nel 2000, in aumento
del 2,8 per mille rispetto ad un aumento del 2,7 per mille nel 1999. Questo lieve aumento
del tasso di crescita demografica dell'Unione deriva dall'incremento naturale della
popolazione (372 mila unità nel 2000 rispetto a 261 mila nel 1999). Sono bambini
destinati a vivere a lungo: i bambini nati nell'UE nel 2000 hanno una speranza di vita di
circa 75 anni e le bambine di oltre 81 anni. Rispetto al 1980, la speranza di vita per gli
uomini è aumentata di 4,5 anni e quella per le donne di 4 anni.
Il tasso di fecondità nell'Unione Europea è salito da 1,45 bambini per donna nel 1999 a
1,53 bambini per donna nel 2000: certo, rimane molto lontano dai livelli massimi raggiunti
nella metà degli anni 1960, con 2,75 bambini per donna. In tutti gli Stati membri, i
tassi sono stati inoltre inferiori alla soglia di sostituzione delle generazioni, stimato
in 2,1.
Questi dati sono contenuti in una relazione di Eurostat. Come tutti i dati relativi alla
popolazione, essi sono interessanti per due aspetti:
1) rendono concretamente evidenti e collettive scelte che generalmente sono vissute
individualmente (come sono quelle della genitorialità);
2) consentono a chi ha responsabilità (di governo a vari livelli, di educazione, di
assistenza) di accompagnare queste scelte ed eventualmente di favorirle con decisioni
pubbliche.
Per questo mi sembra utile, prima di arricchirli di alcuni particolari, un loro raffronto
con le politiche italiane.
La "nuova" ricchezza di una società europea equilibrata. Dall'orientamento
generale della società europea, alla quale anche per questo aspetto gli italiani
appartengono integralmente, sembra emergere una crescente e generale propensione alla
genitorialità. Le trasformazioni economiche e sociali del continente si avvicinano
all'equilibrio, per cui i "bisogni collettivi" sono sempre più quelli riferiti
alla qualità della vita e sempre meno quelli della sussistenza. Tra le componenti delle
qualità della vita c'è una composizione familiare che sul piano biologico assicuri la
continuità e su quello esistenziale garantisca un equilibrio di sostegni affettivi e di
cura che solo una naturale composizione del nucleo familiare alla lunga è in grado di
fornire.
Alcune parti della società europea hanno cominciato da tempo a orientare le loro
politiche nella direzione indicata da queste nuove e "spontanee" esigenze
familiari: lo hanno potuto fare sia perché il ciclo della denatalità era cominciato
prima, sia perché il numero di abitanti - generalmente basso - ha reso più facile
l'equilibrio tra investimenti sulle imprese e investimenti sulle famiglie. Abbastanza
recentemente si sono mosse anche le società "numerose" a partire dalla Francia:
se ne ha un riscontro nel tasso di natalità francese, che vedremo.
Nella legislatura dell'Ulivo anche l'Italia ha scelto questa strada. Non appena è stato
possibile, cioè non appena la stabile partecipazione alla società europea è stata
raggiunta con la partecipazione alla moneta unica, l'Italia ha progressivamente spostato
gli investimenti dalle imprese alle famiglie, considerando queste ultime il motore dello
sviluppo economico e sociale equilibrato. La legge Finanziaria per il 2001 è arrivata a
dedicare i due terzi delle risorse alle famiglie e un terzo alle imprese.
Si è trattato di una scelta politica logica, confortata anche dai dati di Eurostat
sull'andamento demografico, che sto commentando. Proprio perché scelta non ideologica ma
di progetto, era ragionevole aspettarsi che su questo punto la maggioranza di destra che
ha vinto le elezioni il 13 maggio non solo non avrebbe cambiato rotta, ma addirittura
l'avrebbe accelerata, in considerazione di posizioni culturali che sono spesso proclamate
da esponenti del centro-destra.
Nel Dpef italiano la famiglia non è più un soggetto di sviluppo. Invece il
Documento di programmazione economico-finanziaria, che è il primo atto di indirizzo del
governo Berlusconi, contiene affermazioni di principio, che ricalcano le linee generali
dei precedenti governi, ma a differenza di prima non ci sono "numeri". Anzi i
numeri tornano dall'altra parte, tornano alle politiche di sostegno all'economia e non
alla famiglia. Faccio due esempi.
1) Un tema aperto è quello delle detrazioni fiscali per i figli. Negli anni dell'Ulivo
queste detrazioni sono state moltiplicate per sei volte e tuttavia - poiché il punto di
partenza ereditato era irrisorio - si tratta ancora di una misura insufficiente a rendere
più libere scelte di genitorialità. Su questa strada si poteva continuare ora che il
risanamento del bilancio pubblico lo consente. Il Polo ha scelto invece la strada di
premiare la ricchezza. Con il costo dell'abolizione dell'imposta di successione per le
famiglie più ricche (per i patrimoni "normali" l'abolizione era già stata
fatta dall'Ulivo) si poteva elevare ad un milione la detrazione fiscale per i figli. Un
milione diventa una cifra concreta oltre che simbolica, come in questi anni ha proposto
più di qualche sindaco.
2) Un altro tema aperto è quello delle detassabilità di alcune spese: riguarda l'intera
economia italiana, sia come strumento di riduzione fiscale sia come elemento di indirizzo
della società verso alcuni comportamenti. La legislatura dell'Ulivo ha prima dato
stabilità al regime delle imprese con disposizioni che promuovono l'imprenditorialità,
poi - negli ultimi due anni - si è affacciata anche sulla strada della detassabilità di
alcune spese delle famiglie. Era l'indicazione del percorso futuro. Il governo del Polo è
invece tornato al passato con la riedizione della Tremonti, allargata ad altre categorie,
non mirata all'innovazione. La stessa spessa per il bilancio pubblico poteva essere
dedicata alle detassazione delle spese che le famiglie devono affrontare per alcune
emergenze, spese che a volte distruggono l'economia familiare, come quelle destinate per
il mantenimento delle persone anziane. Osservo che investimenti di questo tipo sono
destinati a creare uno sviluppo economico in quanto allargano lo spazio dei servizi alla
persona e incentivano nuove professioni A questo poi dovrebbero spingere anche i dati
demografici con quell'aumento della "speranza di vita" in Europa che è un buon
segnale individuale ma che per un po' di anni - finché appunto l'organizzazione sociale e
la medicina non faranno i progressi necessari - avrà costi familiari elevati.
Francia e Irlanda guidano le nascite europee. Sono così ritornato ai dati
contenuti nella relazione di Eurostat, dalla quale si rileva che la popolazione
dell'Unione Europea era di 377 milioni di abitanti il 1° gennaio 2001; questo dato pone
l'Europa al terzo posto mondiale, dopo la Cina (1,273 miliardi di abitanti) e l'India
(1,030 miliardi). Nel 2000 l'Unione Europea ha realizzato un po' più dell'1 per cento
della crescita demografica mondiale, che è stata superiore a 75 milioni di persone
rispetto al 31 dicembre 1999. Con una crescita demografica del 15,6 per mille l'India vi
ha contribuito in proporzione del 21 per cento, seguita dalla Cina (crescita del 9 per
mille, che ha contribuito per il 15 per cento alla crescita demografica mondiale). Gli
Stati Uniti hanno segnato una crescita del 9 per mille. In Giappone, la popolazione è
rimasta praticamente stabile nel 2000 (+1,8 per mille), mentre quella della Russia è
diminuita (-5,2 per mille).
Per un raffronto con i dati iniziali, segnalo che negli Stati Uniti, il tasso di
fecondità è stato pari a 2,06 bambini per donna, in Giappone, a 1,41, in Russia a 1,17,
in India a 3,11 e in Cina a 1,82. I tassi di fecondità sono aumentati nella maggior parte
degli Stati membri, tranne in Germania e nel Regno Unito, dove sono diminuiti leggermente,
e in Grecia, Irlanda, Austria e Finlandia, dove sono rimasti stabili. Nell'Unione Europea
i tassi di fecondità maggiori sono stati osservati in Francia e in Irlanda (1,89 bambini
per donna in ciascuno di questi paesi), mentre quelli più deboli sono stati osservati in
Spagna (1,22), Italia (1,25) e Grecia (1,30).
Leggero calo dell'immigrazione. L'incremento naturale rimane tuttavia il primo
fattore di crescita della popolazione in Spagna, in Francia, in Irlanda, in Olanda, in
Portogallo e in Finlandia. Il tasso di crescita naturale è stato negativo in Germania e,
in misura inferiore, in Italia, in Svezia e in Grecia: la popolazione di questi paesi
sarebbe diminuita nel 2000 senza un apporto migratorio netto.
Il saldo migratorio, che rimane la componente fondamentale della crescita demografica
europea, è invece leggermente diminuito (+680 mila persone nel 2000 rispetto a +735 mila
nel 1999). La popolazione è aumentata in tutti gli Stati membri nel 2000. La Germania è
il paese in cui il tasso di crescita è stato più debole (+0,4 per mille), seguita dalla
Spagna (+1,2). Il Lussemburgo (+12,8) e l'Irlanda (+11,4) hanno segnato il tasso di
crescita più elevato.
Per le bambine spagnole lunghi anni da
nonne. La diminuzione della mortalità
infantile (decessi di neonati di meno di un anno) costituisce uno dei mutamenti
demografici più rilevanti. La mortalità infantile ha continuato a diminuire nel 2000
nella stragrande maggioranza dei paesi europei. Nell'Unione Europea, è stata pari a 4,9
decessi per mille nascite di bambini vivi, rispetto al 5 nel 1999, al 12,4 nel 1980 e al
34,5 nel 1960. Il tasso è stato più basso in Svezia (3 per mille), mentre quelli più
elevati sono stati osservati in Grecia (6,1) e in Irlanda (5,9) nel 2000. La media è
stata del 3,9 in Giappone, del 6,8 negli Stati Uniti, del 17,1 (nel 1999) in Russia, del
28,9 in Cina e del 64,9 in India.
Grazie alla diminuzione dei tassi di mortalità, la speranza di vita ha continuato a
crescere. Nell'Unione Europea, le bambine spagnole e francesi sono quelle che hanno la
speranza di vita maggiore (82,7 anni), mentre i più longevi sono i bambini svedesi
(77,4), italiani (76,2), greci e spagnoli (75,5). A titolo di paragone, la speranza di
vita degli uomini e delle donne è pari rispettivamente a 74,2 e 79,7 anni negli Stati
Uniti, a 77,4 e 84,8 anni in Giappone, a 61,9 e 63,1 anni in India, e a 69,6 e 73,3 anni
in Cina. Rispetto al 1980, la speranza di vita è diminuita in Russia a meno di 60 anni
per gli uomini nel 1999 e a 72,4 anni per le donne.
Tino Bedin
Roma, 5 agosto 2001 |