EUROPEI

La filosofia di Maastricht non le basta per essere protagonista
L'Europa è un mercato senza Stato
Rischia di subire la globalizzazione come un contagio

di Tino Bedin

In un libro che uscirà tra breve, Fareed Zakaria, direttore di Newsweek International, riferendosi all'Unione Europea scrive che l'Europa continuerà ad esistere come formidabile potenza economica, ma l'unità politica e militare non avverrà mai, perché gli europei non la vogliono e il risultato sarà una diminuzione di influenza e prestigio a livello mondiale. L'Europa non farà parlare di sé come Continente, ma come Francia, Germania o Inghilterra.
Una conferma anticipata di questa analisi si è avuta a fine luglio, quando a Ginevra è fallito il tentativo di compromesso sul commercio internazionale nell'ambito del Doha Round.

Attiva ma non decisiva nel Doha Round. Questo è stato il primo Round dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto, World Trade Organization) in cui l'Europa non ha giocato una parte di primissimo piano. L'Europa è stata al centro del round per le offerte che ha messo sul tavolo e la sua presenza si è dimostrata essenziale per sostenere i negoziati. Però non è stata uno dei grandi protagonisti e anche questo spiega il fallimento di Ginevra.
Indubbiamente all'interno della Wto le tradizionali leadership degli Stati Uniti e dell'Unione Europea si sono ridimensionate per l'arrivo delle economie emergenti (Cina, India e Brasile), il cui peso è diventato determinante per il raggiungimento di un consenso finale. Ma per quanto riguarda l'Unione Europea, le cui posizione sono state difese dal commissario Peter Mandelson, le critiche avanzate pubblicamente dal presidente francese Nicolas Sarkozy, con l'appoggio italiano (dato con molta visibilità) e di altri sette paesi membri, hanno certamente limitato il ruolo del commissario europeo, distraendolo da una posizione di guida.
Dopo sette anni di lavoro si è dunque concluso con un profondo disaccordo, in particolare fra Stati Uniti, Cina e India, questo ottavo negoziato commerciale multilaterale, noto come "Doha Round", dal nome della capitale del Qatar dove fu lanciato nel novembre del 2001.
C'è un'indubbia ironia in questo fallimento: il negoziato che doveva liberalizzare il commercio mondiale si è incagliato su una clausola per erigere nuove barriere tariffarie agricole.
Non si tratta di una bizzarria diplomatica.

Le liberalizzazioni non vanno imposte. Innanzi tutto è finalmente chiaro che le liberalizzazioni, in particolare in agricoltura e nei Paesi emergenti e in quelli impoveriti, non possono essere un dogma imposto dal di fuori, non possono essere improvvisate, ma devono procedere in modo graduale.
In secondo luogo per sette anni i negoziati del Doha Round sono rimasti sostanzialmente finalizzati alla riduzione del livello dei dazi e delle sovvenzioni per i prodotti agricoli ed industriali.
Intanto però il mondo è cambiato. Ad esempio, sono diventate altre le sfide globali: tra le più importanti ed urgenti quella di combattere il surriscaldamento del pianeta, con intrecci notevoli con le politiche agroalimentari e commerciali. Queste sfide sono rimaste lontane dall'agenda della Wto, tranne (indirettamente) quella del forte aumento dei prezzi agri coli che ha spinto l'India a richiedere una clausola di salvaguardia speciale in difesa della propria produzione agricola contro forti importazioni.
Cambiano anche le "dimensioni" delle nazioni e dei continenti. Studiando la storia a scuola, avevamo imparato che solo le guerre a cambiare le dimensioni degli Stati. Ora ci accorgiamo che anche la pace è capace di provocare questi cambiamenti.
Per l'Italia Lapo Pistelli, deputato del Partito Democratico, ha usato quella bella metafora nel corso del dibattito alla Camera dei deputati sulla ratifica del Trattato europeo di Lisbona: "Come accade a Gulliver nei viaggi raccontati da Swift, noi ci siamo addormentati quindici anni fa (addormentati, per così dire, tecnicamente): noi eravamo un Paese grande in un mondo piccolo, dove noi studiavamo la Cina e l'India al capitolo Paesi in via di sviluppo, dove l'Europa era divisa e il sud del mondo non contava, e ci siamo svegliati Paese medio, per non dire medio-piccolo, in un mondo grande, dove Cina e India sono i motori, le locomotive del nuovo secolo, dove l'Europa si è riallargata e riunificata e dove il sud del mondo produce nuovi grandi attori come il Brasile o come il Sudafrica".

Un governo continentale. Il Trattato di Lisbona, appunto, per un'Unione Europea che intanto è cambiata troppo poco. L'Europa non è nata per promuovere la globalizzazione tra gli europei ma per difendere il modello ed i valori europei. L'Europa ha la struttura e la filosofia liberale di Maastricht: fiducia nel mercato, fiducia nei risultati che comportamenti virtuosi, in primo luogo la disciplina di bilancio, avrebbero determinato in termini di crescita e di sviluppo.
Questo modello però è entrato in tensione nell'epoca della globalizzazione. Esperti a governare il nostro presente e a programmare il nostro futuro attraverso le democrazie nazionali, molti di noi europei ci sentiamo "contagiati", nostro malgrado, dalla globalizzazione, che viviamo come una "malattia" di cui non siamo responsabili, ma che ci colpisce - appunto - come un contagio, perché la globalizzazione è senza governo. Così sta prendendo piede la convinzione, che in Italia è sostenuta dal (ritornato) ministro Giulio Tremonti (quello stesso che l'altro ieri sventolava la "minaccia cinese"), secondo la quale oggi non è più l'Europa a cambiare il mondo, ma è il mondo a cambiare il Vecchio Continente, perché non è stata l'Europa ad entrare nella globalizzazione, ma viceversa.
La diagnosi è sostenibile, ma la prognosi è sbagliata: l'origine della crisi è nella dimensione dell'esercizio della sovranità (e quindi della guida democratica da parte degli europei), dimensione che in questo secolo e già in quello precedente è almeno continentale. In Europa la sovranità perduta dai singoli Stati non viene guadagnata dall'Unione Europea, che ha una Banca centrale europea che si occupa della stabilità dei prezzi, ma non ha un Ministro europeo dell'economia che definisca una politica europea di sviluppo e non c'è quindi una manovra di bilancio europea discussa con i cittadini.
L'Unione Europea, insomma, è un mercato senza Stato. Non ha cioè un governo. Non lo avrà nemmeno in futuro come profetizza Fareed Zakaria? Una prima risposta l'avremo dal destino del Trattato di Lisbona: solo se entrerà in vigore (nonostante il voto irlandese e le resistenze polacche e ceche), la profezia potrà essere cambiata.

10 agosto 2008


10 agosto 2008
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Tino Bedin