PARTITO DEMOCRATICO

ANTOLOGIA

L'Espresso
26 giugno 2015
Susanna Turco

Gianni Cuperlo e l'analisi amara sul nuovo Pd
"Verso il partito-franchising. Come le gelaterie"
"Rischiamo di diventare un partito che il rinnovamento lo evoca, ma non lo pratica. E torna ai sistemi delle tessere, ai notabilati personali"

Qualcuno l'ha paragonato a un rubinetto che perde acqua, goccia a goccia: un addio ieri, un addio oggi, uno domani. E poi ci sono i rottamati e i rottamandi, quelli che vanno in letargo e quelli che si sfilano. Ma a forza di gocce, sorge la domanda: il Pd sta cambiando faccia? "Sì, ci stiamo trasformando: ma nessuno si ferma a rifletterci su, ed è preoccupante", dice Gianni Cuperlo, leader di Sinistradem e già competitor di Renzi alle primarie 2013. E in che cosa si sta trasformando, in un partito all'americana? "Il vero rischio è che diventi un partito in franchising: ha presente le pubblicità delle catene dei negozi? 'Apri una gelateria a 4.900 euro, diventa imprenditore di te stesso'. Ecco: così. Ognuno costruisce il suo Pd per gli scopi propri, il vertice fornisce il marchio".
Il tono duro, ma anche amarissimo, è dato dall'addio di Stefano Fassina. La goccia che fa traboccare il vaso, quella che impone una riflessione in più. "Mi lasci dire che l'uscita di Stefano rappresenta per me un dispiacere particolarmente intenso", spiega Cuperlo, ancora prima che gli si possa rivolgere qualsiasi domanda. Un dispiacere personale, un significato politico: "So che in politica tutto si riduce nel trionfo dell'istante, ma io Stefano l'ho conosciuto trent'anni fa, quando guidavo i giovani del Pci: abbiamo militato sempre negli stessi partiti, non ci siamo mai più persi di vista. E il fatto che un uomo con la sua esperienza, storia, cultura, giunga a maturare l'idea che il Pd non sia più in luogo nel quale esprimere la propria appartenenza, va oltre il titolo del giorno: ha a che fare con ciò che la politica è diventata, in questa stagione".
"Una scelta velleitaria", l'ha definita il vicesegretario dem Lorenzo Guerini.
"Ecco, sono stupito dalla distanza tra il significato di queste uscite e le reazioni che suscitano. Negli ultimi mesi per diverse ragioni, abbiamo visto uscire due parlamentari europei, ossia Cofferati e Schlein; quattro parlamentari nazionali, vale a dire Civati, Pastorino, Fassina e Gregori. Abbiamo un ex presidente del Consiglio, Enrico Letta, che ha fatto una scelta di vita, si è dimesso dal Parlamento e sta a Parigi. Massimo Bray, che era ministro della Cultura nel governo Letta, è tornato a fare il direttore della Treccani. Lapo Pistelli ha compiuto la scelta personale di lasciare il governo per andare all'Eni".
Piddini in fuga?
"L'elenco dovrebbe far ragionare, perché dietro queste figure ci sono decine di migliaia di elettori che si pongono le loro stesse domande, che hanno le loro stesse difficoltà a restare nel Pd. Invece, leggo reazioni liquidatorie: e non solo mi dispiace, mi preoccupa. Non c'è un momento, dico uno, in cui si rifletta su cosa stiamo diventando. Nessuno si ferma a pensarci: come se la quotidianità divorasse tutto. Non ci si sconcerta più per nulla: anzi".
Sono andati via: problema loro.
"Sbagliato: il problema è nostro, del Pd. Rischia di innestarsi il meccanismo del meno siamo meglio stiamo: chi è 'contro' toglie il disturbo? Urrà, un problema in meno. Mentre io avevo capito, da giovane, che la fatica del pluralismo è essenziale, per la vitalità di un partito".
Allude alla tradizione del Pci-Pds-Ds del si litiga ma si resta tutti uniti?
"Ma guardi il problema non è tornare indietro: io non rimpiango la Ditta. Anzi, ritengo che vada tutto ripensato: cosa è oggi la sinistra, un partito, le sue forme di partecipazione e mobilitazione. E non nego che da questo punto di vista la carica di energia, di rottura persino brusca da parte di Renzi sia stato uno degli elementi decisivi di spinta per il Pd".
Però?
"Quel che temo è un partito che questo rinnovamento lo evoca, ma non lo pratica. E rischia di tornare - come qua e là si è già visto - ai sistemi delle tessere, ai notabilati personali. E, con l'abolizione del finanziamento pubblico, addirittura a una concezione patrimoniale dell'accesso alle cariche pubbliche: roba da Ottocento. Dall'altro lato, vedo il rischio di un sistema che si impigrisce, e si riduce a un partito degli eletti. Cioè: tu conti solo se sei presente dentro le istituzioni; fuori, è come se avessi abdicato al ruolo di organizzare le energie della società".
Il Pd è destinato a diventare una forza moderato-centrista?
"Non lo credo: se questa fosse la sua evoluzione, si romperebbe lo schema sulla cui base è stato fondato. Scelgo, come altri, di rimanere perché penso che il Pd esiste solo in quanto asse portante del nuovo centro sinistra: diversamente, cessa di essere. Ma non mi nascondo che questo partito sta cambiando. Fingere di non vederlo può essere consolatorio, ma è rischiosissimo".
I dem diventeranno un partito all'americana?
"Il rischio vero è che diventi un partito elettorale, costituito da un vertice e da una somma di comitati elettorali. Insomma un partito in franchising. Ha presente le catene di negozi, e le pubblicità: 'Apri una gelateria a 4.900 euro, diventa imprenditore di te stesso?'. Ecco: uguale".
Tanti piccoli gelatai democratici?
"Ognuno costruisce il suo piccolo Pd che gli serve per scopi propri, i vertici ci mettono il marchio. Non credo che possa essere un modello".
Fassina del Pd ha criticato l'impianto, la "tendenza plebiscitaria", l'inclinazione al liberismo. Dice che "sta spostando l'asse verso i poteri forti": che "si mettono grandi banchieri ovunque". Cosa sottoscrive di tutto ciò?
"La tendenza plebiscitaria è oggettiva: sta nel fatto che, dalla fondazione, abbiamo deciso di eleggere il nostro leader in una consultazione aperta a 'tout le monde'. Io sono cresciuto in un partito dove l'elezione la faceva il comitato centrale, e d'accordo. Ma passare a tre milioni di persone di cui non conosci nulla…".
Vuole abolire le primarie anche lei?
"No, non sono in discussione. Vorrei però introdurre dei filtri minimi, un albo degli elettori. Invece, per quel che riguarda l'elezione del segretario, l'unica cosa saggia da fare penso sia tornare alla elezione da parte dei soli iscritti".
E i poteri forti? Il liberismo?
"C'è una partita politica e culturale da fare. Nella crisi europea, il punto è che le politiche imposte sin qui sono fallite, nei fatti. Il problema della sinistra è quale alternativa offre. E non basta riproporre Keynes, bisogna che riveda molti aspetti della sua tradizione".
All'inizio 2014, albori del renzismo di governo, lei si dimise polemicamente da presidente del Pd al grido di "no al partito caserma". Cosa è cambiato in questo anno e mezzo?
"Poco. Casomai c'è qualche problema in più. Si è vista la scarsa capacità del gruppo dirigente di farsi carico del pluralismo. Di capire che omogeneo non significa più forte: perché l'omogeneità del pensiero non è un valore, in un partito. Se poi l'omogeneità diventa omologazione, è peggio ancora. Anche perché, come si è visto con gli ultimi ballottaggi, il Pd non basta a se stesso".
Lei lancia gli allarmi: ma Renzi l'ascolta?
"Non lo so, ma dovrebbe guardare in faccia la realtà: se non c'è una correzione di rotta, rischiamo la sconfitta alla prossime politiche. Io invece voglio un Pd vincente, che possa concludere la stagione delle larghe alleanze".

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