IN PARLAMENTO

Non ha fondamento la presunta "necessità giuridica"
La legge Cirami è contraria
alle indicazioni
della Corte costituzionale

Le modifiche introdotte non aumentano le garanzie per i cittadini; anzi, diminuiscono il rapporto di fiducia con le istituzioni

Pubblicamo una delle schede che il gruppo Margherita-L'Ulivo del Senato ha predisposto per motivare l'opposizione al disegno di legge sul legittimo sospetto presentato dal senatore Cirami.

Le modifiche all'art. 47 c.p.p. suggerite dal disegno di legge sul legittimo sospetto non appaiono né necessarie né opportune. La relazione che accompagna il disegno di legge afferma che "appare opportuno rendere effettive le decisioni della Corte Costituzionale che avevano giustamente limitato gli effetti sospensivi della richiesta ai fini di evitare ingiustificate paralisi processuali basate su pretestuose reiterazioni delle richieste di rimessione".
Ora, per rendere effettive tali decisioni, si propone proprio di reinserire quel comma che la Corte Costituzionale aveva con la sentenza n. 353/96 sostanzialmente abrogato, dichiarando illegittimo l'articolo nella parte in cui vietava al giudice di pronunciare sentenza fino alla dichiarazione di rigetto o di inammissibilità della richiesta di remissione.
Non solo. Si vuole ora estendere ulteriormente tale divieto equiparando alla sentenza il decreto che dispone il giudizio, dopo che la Cassazione penale aveva già dichiarato manifestamente infondata la questione relativa all'inserimento di tale ulteriore elemento, sul presupposto, evidente a chiunque abbia conoscenza dei rudimenti della procedura penale, che il decreto che dispone il giudizio non ha alcun carattere decisorio e non preclude il riesame, nel corso del successivo processo, di qualsiasi questione risolta dal Gip! Il tutto, aggiungendo come unico limite il divieto di sospensione nel solo caso in cui la richiesta di rimessione costituisca riproposizione di una precedente già respinta e fondata sui medesimi motivi!
La direzione platealmente contraria alle giuste sottolineature e correzioni operate dai supremi organi giurisdizionali del nostro ordinamento, unitamente al carattere affrettato del testo del disegno di legge, all'assurda disposizione che, eccezionalmente rispetto alla ordinaria formulazione legislativa, applica le nuove disposizioni anche ai processi in corso ed elimina perfino la vacatio legis (come se si trattasse di provvedimento di urgenza straordinaria, neanche fossimo in tempo di guerra o in situazione di calamità…), rendono evidente la ragione puramente personalistica che ha dettato queste norme.
Noi ci opponiamo a questo modo di legiferare.
La nazione, la collettività, si attende da noi che inseriamo nell'ordinamento disposizioni che rendano più efficace l'amministrazione della giustizia, garantendone l'imparzialità, non certo disposizioni buone solo a paralizzare i processi. Il nostro ordinamento e la nostra Costituzione avevano già fondato i pilastri di un garantismo corretto, ammirato e invidiato da molti altri Paesi, anche europei, anche democraticamente e socialmente assai evoluti.
Le modifiche che oggi si vogliono introdurre non aumentano le garanzie per i cittadini. Anzi, diminuiscono fortemente quel rapporto di fiducia che deve legare i cittadini alle istituzioni. Se si reinserisce il "legittimo sospetto" (nutrito dalle parti processuali verso il giudice) fra gli elementi che possono distogliere il singolo dal suo giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.) si introduce la legittimazione ad un atteggiamento che può essere di mera diffidenza e che, così com'è, senza ulteriori precisazioni, può condurre ad un uso distorto degli strumenti di garanzia, ad un abuso in cui il garantismo si riduce a mero simulacro, a paravento di un atteggiamento illegale che cerca solo la propria impunità, con ogni mezzo.
Queste considerazioni si attagliano perfettamente anche alle modifiche che si vogliono introdurre all'art. 47 c.p.p., modifiche di cui non si sente affatto la necessità, non sussistendo nessuna esigenza di rendere efficace le decisioni della Corte Costituzionale, decisioni tanto chiare e lineari da essere già effettive (self exècutive, diremmo, se fossimo nel campo del diritto internazionale).
Come è stato già accennato, infatti, la Corte Costituzionale si è recentemente pronunciata sulla legittimità di questa norma, una volta, nel 1996 con la sentenza n. 353, dichiarandola illegittima nella parte in cui vieta (vietava, potremmo dire ormai) al giudice di pronunciare sentenza finché non sia intervenuta la decisione di inammissibilità o rigetto della richiesta di rimessione, e una seconda volta nel 1997 (con l'ordinanza n. 5) dichiarando inammissibile la questione di legittimità ad essa nuovamente sottoposta e precisando che la precedente sentenza, oltre che abrogativa, aveva altresì svolto una funzione interpretativa riconoscendo al giudice il potere di sindacare l'ammissibilità della richiesta di rimessione, sia pure al solo scopo di valutare se pronunciare la sentenza.
Di fronte a giudizi così chiari e autorevoli, c'era davvero bisogno di questa modifica? Non solo non c'era bisogno, rispondiamo, ma non possiamo non evidenziare con sconcerto che essa, nonostante le parole altisonanti ed ossequiose che l'accompagnano, va proprio in direzione opposta a quanto affermato dalla Corte, reintroducendo con la massima nonchalance proprio quello che la Corte stessa aveva dichiarato illegittimo. Ma con una precisazione, quella contenuta nell'ultima frase dell'art. 2 di questo disegno di legge, quella in cui - secondo i firmatari del ddl - è racchiuso tutto il segreto per accogliere questa riforma come risolutiva, tale da impedire sia gravi iniquità ed imparzialità che stasi processuali. Si precisa infatti che non si può sospendere il processo se la richiesta di rimessione costituisce riproposizione di altra già proposta e se è fondata sui medesimi motivi.
Come se qualcuno fosse così idiota da ripeterli, tali motivi.
Questo accorgimento appare totalmente inefficace a scongiurare il pericolo di un uso dilatorio della richiesta di rimessione, pericolo già autorevolmente evidenziato dalla Corte Costituzionale che, nel dichiarare illegittimo il divieto di pronunciare sentenza ebbe a rilevare che "fra i possibili percorsi della disciplina normativa il legislatore non può scegliere quello che comporti, sia pure in casi estremi, la paralisi dell'attività processuale, perché impedendo sistematicamente tale attività, nella specie mediante la riproposizione dell'istanza di rimessione, si finirebbe col negare la stessa nozione del processo e si continuerebbe a recare danni evidenti all'amministrazione della giustizia".
Che dire poi di un potere sospensivo attribuito allo stesso giudice che si vuole esonerare dal processo, non in sostituzione ma in aggiunta a quello spettante (ex art. 47 co. 2 c.p.p.) al giudice superiore (Cassazione) che deve valutare la accoglibilità o meno della domanda di rimessione? Questa modifica appare assolutamente incomprensibile e tale da risolversi solo in un moltiplicarsi inutile di garanzie… (Viene da chiedersi: cosa rappresenta la giurisdizione per chi cerca solo sistemi per sospendere, interrompere o evitare processi?).
Certo, non ha alcuna necessità di essere modificato il precedente sistema che giustamente prevede che il giudice superiore, chiamato a decidere sull'accoglimento o meno della domanda di rimessione, può (non deve!) valutare, in limine litis, anche se la domanda stessa presenta quei caratteri di sommaria fondatezza che rendono opportuna la sospensione del processo in corso, per evitare che si compiano attività inutili, qualora sia probabile il mutamento del giudice: un sistema, quello attualmente vigente, che costituisce l'applicazione di un principio assai diffuso, che trova numerosi esempi nei nostri codici, dai casi di ricusazione alle ipotesi di impugnazione di provvedimenti - come le sentenze civili di primo grado - immediatamente esecutivi.
Paradossale, infine, appare sospendere non solo la pronuncia della sentenza ma anche il decreto che dispone il giudizio. Anche in relazione a questo, è opportuno sottolineare la presenza di una pronuncia autorevole già intervenuta: quella della Corte di Cassazione, sezione VI penale, la quale ebbe a sottolineare nel 1993 la sostanziale diversità tra la sentenza di merito e il decreto che dispone il giudizio. Solo la prima infatti è idonea ad acquisire definitività e l'efficacia di cosa giudicata (e in quanto tale, in astratto, a cagionare la lesione di diritti soggettivi), mentre il decreto non accerta alcun fatto né alcuna responsabilità, limitandosi a sancire la necessità che una certa vicenda fattuale sia sottoposta al vaglio dibattimentale, dove qualsiasi questione risolta dal g.i.p. può sempre essere riesaminata.
E allora perché impedire anche questo atto, ci si domanda, se non per avere la possibilità di dilazionare sempre di più la decisione finale, e in sostanza per tentare di sottrarsi al controllo giurisdizionale?

15 ottobre 2002

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12 novembre 2002
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